Variante inglese in sei casi su dieci
Caruso: «Ma vaccini anti-Covid efficaci»

Il professor Arnaldo Caruso avverte «Nel giro di poche settimane diventerà prevalente». Ora profilassi efficace, preoccupano le mutazioni.

Ormai, non si parla d’altro. Da giorni sulla bocca di tutti c’è la cosiddetta variante inglese, la mutazione di Sars-CoV-2 ritenuta responsabile della recente impennata di casi in diversi angoli d’Italia, inclusa la Bergamasca. Focolai dovuti alla variante d’oltremanica sono stati accertati un po’ ovunque, incluso il comune di Trescore Balneario, per rimanere «in casa». Quel che è certo è che, ormai, non è più una questione di se: è solo una questione di quando, la mutazione, diventerà prevalente. «Succederà nel giro di poche settimane, anche nelle nostre zone – prevede Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di Virologia, oltre che direttore del Laboratorio di Microbiologia dell’Asst Spedali Civili di Brescia –. Nel nostro laboratorio, a Brescia, sequenziamo circa cinquanta genomi a settimana, scegliendo casualmente fra i tamponi positivi che ci arrivano dal territorio. Ebbene, la variante inglese è ormai presente in oltre 60% dei casi».

Professore, a questo punto non possiamo che rassegnarci: la variante inglese soppianterà il ceppo originale del virus. Quanto ci deve spaventare questa previsione?

«C’è una cosa che ci preoccupa particolarmente: questa variante tende ad accumulare su se stessa altre mutazioni. Circolando maggiormente, avendo una capacità di diffusione più ampia rispetto al ceppo originario, acquisisce mutazioni tipiche di altre varianti, e non solo. Ecco: questa sua capacità la rende particolarmente temibile, da tenere sotto stretto controllo».

Temibile perché, acquisendo più mutazioni, potrebbe diventare più aggressiva? O perché potrebbe sfuggire ai vaccini?

«Per come la conosciamo ora, la variante inglese viene perfettamente neutralizzata dai vaccini. Ma, ripeto: per come la conosciamo ora. Le prime mutazioni che sta acquisendo la avvicinano a ceppi un po’ meno sensibili alla neutralizzazione dei vaccini, come il ceppo sudafricano o quello brasiliano. Ecco perché la sorveglianza sul territorio deve essere un dovere assoluto, da assolvere a pieno regime il prima possibile».

Sull’aggressività di questa variante si sente tutto e il contrario di tutto. É o non è più aggressiva, e letale, del ceppo originario?

«Non c’è alcuna prova che la variante inglese sia più aggressiva del virus originario. Anzi, se proprio vogliamo fare confronti, c’è qualche evidenza del contrario. Del resto, come ben sappiamo, l’evoluzione dei virus respiratori tende a smorzare la loro aggressività e ad aumentarne l’infettività».

Eppure è sotto gli occhi di tutti la crescita dei contagi e in qualche caso anche dei ricoveri. Peraltro pure in fasce d’età giovani, fino ad ora «graziate» dal virus.

«Ma è una conseguenza della capacità della variante inglese di diffondersi più facilmente, non di una sua maggiore letalità o di una sua maggiore aggressività. Questa mutazione colpisce di più tutte le fasce d’età, e arriva a infettare con più facilità tutti i soggetti, giovani inclusi: e con la platea dei contagiati ad ampliarsi, si amplia - di conseguenza - anche il numero di ammalati e di ammalati severi».

Un altro nodo è quello dei test. Sugli studenti si utilizzano soprattutto quelli rapidi, antigenici: sono efficaci nell’intercettare il virus mutato?

«Alcuni potrebbero non esserlo. Si tratta di test già di per sé meno sensibili, che potrebbero non essere in grado di riconoscere alcune mutazioni del virus. Ecco perché affidarsi in toto all’utilizzo dei test antigenici potrebbe essere rischioso. Andrebbero invece usati i tamponi molecolari, che sappiamo essere il gold standard dello screening».

Ma un uso massiccio dei tamponi molecolari equivale, lo sappiamo bene, a intasare i laboratori. Proprio in un momento in cui dovrebbero dedicarsi anche al sequenziamento.

«Non necessariamente. Da tempo sosteniamo infatti che serva un’organizzazione a più livelli. Va allestita una rete di laboratori, di primo livello, impegnata nella diagnosi sul territorio, e cioè nel processare i tamponi. Al contempo un’altra rete, di secondo livello, si dedica invece alla sorveglianza con il sequenziamento dei genomi».

A proposito di sequenziamento: l’Italia ha recuperato il ritardo con cui studia e intercetta nuove varianti del virus?

«Non ancora. A fine gennaio il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri ha annunciato la nascita di un consorzio per il monitoraggio delle mutazioni: consorzio che si basa sul lavoro di una rete di laboratori italiani, e di cui faccio parte in qualità di presidente della Società italiana di virologia. Purtroppo la caduta del governo ha causato una battuta d’arresto nel lavoro di questo consorzio. Ma non possiamo concederci ulteriori ritardi: nel nostro Paese sequenziamo attualmente poche centinaia di genomi a settimana, dovremmo sequenziarne almeno 4 mila»

© RIPRODUZIONE RISERVATA