Veronica, «cintura vera» di coraggio
La sua lotta contro una malattia misteriosa

Lo racconta in un’autobiografia realizzata con l’aiuto di un gruppo di ragazzi di una scuola media di Palazzolo, coordinati da Paolo Taesi, il professore di religione. Con il ricavato ha deciso di aiutare la Fondazione From dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo, il suo punto di riferimento per le terapie: «La mia àncora di salvezza».

«La potenza della speranza, l’amicizia vera, l’amore profondo, la forza inaspettata di una persona qualunque di fronte a una sfida indesiderata» sono le caratteristiche che fanno di Veronica Raineri una «Cintura vera» di coraggio, come dice il titolo del libro in cui racconta la sua storia.

Appassionata di karate da sempre, dal 2014 – quando aveva solo 22 anni – combatte contro una malattia senza nome. Lo racconta in un’originale autobiografia realizzata con l’aiuto di un gruppo di ragazzi di una scuola media di Palazzolo (lei vive nel paese vicino, Erbusco), coordinati da Paolo Taesi, il professore di religione. Con il ricavato ha deciso di aiutare la Fondazione From dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo, il suo punto di riferimento per le terapie: «La mia ancora di salvezza».

Veronica ha i capelli corti e un sorriso sbarazzino, sembra più giovane dei suoi 27 anni: «Se dovessi descrivermi – racconta – direi che sono una ragazza qualunque, mi piace ridere, scherzare, uscire con gli amici. Sono sempre stata molto attiva e le mie più grandi passioni sono il karate e il disegno». Quando si sono manifestati i primi segni della malattia frequentava la facoltà di Economia, banca e finanza all’Università di Brescia: «Per mantenermi gli studi avevo trovato un lavoretto nel mio Comune e davo ripetizioni. Facevo parte anche di una compagnia teatrale amatoriale». Alla fine del 2014 ha incominciato a soffrire di una febbre persistente: «Credevo di aver preso una banale influenza, ma non mi passava e mi sentivo sempre più stanca. Anche le abituali attività quotidiane mi causavano una fatica insolita, finché una mattina mi sono accorta che perfino spostarmi dalla camera al bagno mi costava uno sforzo sovrumano. A quel punto sono andata dal medico, che mi ha inviato a sua volta al Pronto soccorso».

È incominciato così un lungo pellegrinaggio da un ospedale all’altro: «Nessuno, purtroppo – racconta Veronica – riusciva a capire che cosa ci fosse in me che non andava». Qualche mese dopo, nel luglio del 2015, Veronica è approdata all’ospedale «Papa Giovanni XXIII»: «È lì che ho incontrato il neurofisiopatologo Camillo Foresti, che mi segue ancora. Mi ha ascoltata con attenzione e dopo una visita accurata mi ha sottoposto a nuovi esami. Neanche lui è riuscito a dare un nome alla mia malattia, ma ha capito quale fosse il problema e soprattutto ha preparato un piano terapeutico». Prima di questo incontro Veronica aveva girato a lungo a vuoto: «Abbiamo consultato molti specialisti. C’era chi mi rimandava a casa e chi mi rimbalzava a qualche collega. Nel frattempo però tutti dicevano ai miei genitori che rischiavo di morire, perché facevo sempre più fatica a respirare».

Dopo le analisi eseguite al «Papa Giovanni», Veronica è stata ricoverata nel reparto di Terapia intensiva adulti allora diretto da Gianmariano Marchesi: «Ero molto debole, ero dimagrita moltissimo, mi spostavo su una carrozzina elettrica, perché camminare era diventato troppo impegnativo. Respiravo in affanno come se stessi sempre correndo. Quando mi addormentavo, mi ritrovavo spesso in apnea. Il primo obiettivo era quindi aiutarmi nella respirazione con una ventilazione meccanica non invasiva. Sono rimasta per 45 giorni in ospedale, nel frattempo mi hanno adattato il ventilatore in modo che potesse seguirmi anche a casa. Per circa due anni l’ho usato 24 ore su 24». Alla fine del 2016 Veronica è stata ricoverata di nuovo in ospedale, questa volta a Milano, per un periodo di riabilitazione intensiva, con l’uso di metodi sperimentali: «Finalmente, con lentezza, la situazione è migliorata. Adesso uso la carrozzina solo per tragitti lunghi, ma per quelli brevi mi basta una stampella. Ho ancora la ventilazione assistita ma non occorre più per 24 ore al giorno».

La sua malattia, purtroppo, resta sconosciuta: «Le terapie continuano, periodicamente ci sono visite e controlli». Veronica, abituata a vivere di corsa, ha dovuto adattarsi a un ritmo più lento: «Ho imparato a considerare i problemi come semplici “imprevisti” e ad affrontarli uno per volta». La vita, comunque, è andata avanti: «Nel 2017 mi sono laureata e ho trovato un lavoro. La mia famiglia e i miei amici mi sono sempre stati vicini: mi tengono in braccio se non riesco a salire le scale, mi portano in gita col ventilatore».

La passione per il karate è sempre viva: «Continuo a frequentare i corsi compatibilmente con le mie condizioni. Nel giorno del primo ricovero avrei dovuto dare l’esame di cintura nera primo dan e non mi sono potuta presentare. Il mio maestro però ha raccontato la mia storia alla commissione, che mi ha promossa comunque. Quella cintura è stata il regalo più bello e più importante che potessi ricevere, perché mi ha dato coraggio». Quando Veronica ha superato il periodo più critico, il suo parroco le ha chiesto di raccontare la sua storia alla comunità: «Non è stato facile, ma ho pensato che mi era capitata una cosa talmente grande che non potevo tenerla per me. È venuto anche il dottor Foresti». Da allora si è impegnata in molti modi per restituire l’attenzione, la cura, l’affetto ricevuti nei periodi più difficili.

In un celebre romanzo dello scrittore francese Eric Emmanuel Schmitt, «Oscar e la dama in rosa», un ragazzino, malato di leucemia, cerca tra le righe delle sue giornate un senso più profondo: «Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo». Così ha fatto anche Veronica, e sulla sua strada un giorno è capitata una classe di una scuola media di Palazzolo, che nelle ore di religione stava leggendo proprio quel libro di Schmitt per approfondire i temi legati alla malattia e al modo in cui essa trasforma le persone. Il professore, Paolo Taesi, l’aveva invitata perché rispondesse alle domande dei ragazzi attingendo alla propria esperienza.

«A un certo punto – spiega – una ragazzina mi ha chiesto se avessi mai pensato di scrivere un libro. Sono rimasta un po’ spiazzata, le ho risposto che non avevo le competenze per farlo. Lei però non si è arresa e ha suggerito che forse il professore avrebbe potuto aiutarmi. Alla fine della lezione Paolo mi ha detto che mi avrebbe dato volentieri una mano. Mi sono chiesta: perché non provare? Ho pensato di coinvolgere anche i ragazzi, perché l’idea era venuta da loro». Questo insolito progetto di scrittura si è avviato il 14 febbraio 2018, il giorno del compleanno di Veronica: «Era un’attività extrascolastica, perciò ci incontravamo in biblioteca oppure a scuola dopo le lezioni. Buttavo giù qualche idea, il professore la scriveva a computer e i ragazzi davano indicazioni e consigli per rendere il testo più avvincente. «Cintura vera» non è una biografia qualunque, volevo che mi rappresentasse, perciò l’abbiamo strutturata come se fosse un combattimento di karate: parlo della famiglia come dei miei allenatori, i terapisti e i medici sono gli arbitri, e gli amici i miei tifosi».

Nel giro di qualche mese l’opera è arrivata a compimento: «È stata una bellissima esperienza. Questo libro mi ha offerto molte opportunità, prima fra tutte quella di ringraziare le persone che mi sono state vicine». Veronica ha scelto di devolvere il ricavato dalla vendita del libro a un progetto di solidarietà: «Ho pensato subito all’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo e mi hanno parlato della Fondazione From. Mi è sembrata la scelta giusta, perché la ricerca aiuta persone come me, con malattie rare e sconosciute, a ottenere una diagnosi e una terapia».

Veronica ha chiesto di incontrare i responsabili della Fondazione per illustrare il lavoro dal quale era nata la sua donazione, significativo e importante al di là della cifra che se ne potrà ricavare. «Ho incontrato il direttore scientifico, il professor Tiziano Barbui: ci siamo subito capiti, in lui ho ritrovato l’ideale per me fondamentale di vicinanza e umanità nella cura». Con il primo assegno Veronica ha condotto alla Fondazione From anche i ragazzi che hanno collaborato al progetto, per presentarli ai medici. «Speriamo che il libro continui a circolare e che in futuro il nostro aiuto diventi ancora più consistente». Veronica vive giorno per giorno: «Il mio problema più grave resta la respirazione. Ho imparato che se non funziona il diaframma non lo fanno neanche i polmoni. Chissà se guarirò mai completamente».

Di fronte alla malattia ognuno reagisce a modo suo: «Mia mamma ha un carattere forte, mentre mio padre, Costantino, è paurosissimo. Mia sorella Beatrice mi è molto vicina, e la più piccola, Federica, ride sempre. Quello che mi piace di più della mia famiglia è la capacità di sdrammatizzare e di trasformare qualunque situazione in un’occasione di divertimento».

Veronica ha imparato a vincere la timidezza: «Se ho qualcosa da dire non perdo più l’occasione per farlo. Il mio più grande desiderio è poter tornare a correre come prima. Mentre m’impegno per raggiungere quest’obiettivo, però, provo a volare con la mente, ma anche con il corpo. Ho fatto un’esperienza fantastica con un simulatore di volo in caduta libera: l’istruttore mi ha sollevato a 15 metri d’altezza e poi mi ha lasciato andare e ho provato l’emozione di essere sostenuta solo dall’aria. Così ho scoperto una cosa, forse ovvia, ma per me fantastica: è più facile volare che camminare. E io ormai ho messo le ali».

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