Aborto, se i numeri nascondono la gravità del problema

La decisione della Corte suprema americana di togliere il diritto all’aborto come diritto individuale e privato avrà ripercussioni non solo negli Stati Uniti. La sentenza Roe vs Wade del 1973 aveva infatti dato inizio alla legalizzazione dell’aborto in molte nazioni del mondo. Il motivo che spinse a rendere legale l’aborto era stato soprattutto il principio dell’autodetermi-nazione della donna. «L’utero è mio e lo gestisco io» gridavano nelle piazze le femministe italiane negli anni ’70.

Tuttavia la rivendicazione del diritto all’aborto, in nome della libertà, è apparso da subito problematico perché va a ledere il diritto alla vita di un altro essere umano. La libertà della madre di non accettare una gravidanza, non può spingersi a sopprimere il figlio che cresce in lei, anche se indesiderato, a meno che non si voglia legalizzare il diritto del più forte. È vero che la donna è tuttora la parte «debole» di molte situazioni familiari e vittima di contesti sociali di povertà, vessazione o violenza, ma il feto è più debole di lei. Uno Stato che legalizza l’aborto introduce implicitamente il principio che la vita di un uomo possa dipendere dalla volontà di un altro.

C’è da dire che in questi cinquant’anni le diverse legislazioni hanno cercato un possibile compromesso tra l’istanza etica del rispetto della vita umana nascente da una parte e la rivendicazione della libertà delle donne di non essere costrette a una gravidanza non desiderata dall’altra. La via di mediazione è stata trovata in alcuni Stati, non legalizzando l’aborto, ma depenalizzandolo. L’aborto così non è più «reato», ma è permesso a certe condizioni. Anche la legge 194 in Italia permette l’interruzione volontaria della gravidanza entro le prime dodici settimane dal concepimento. Un modo per permettere alla donna di decidere se abortire, ma anche un modo per coinvolgere responsabilmente la società, grazie al consultorio familiare, attraverso il quale la donna doveva passare per vedere se non fosse stato possibile «rimuovere le cause» che la portavano a una tale scelta.

Di fatto la politica dopo aver regolato l’accesso non ha mai affrontato seriamente i motivi per cui le donne ricorrono all’aborto. Eppure tutti riconoscono l’aborto come un fatto estremamente negativo nella vita di una donna. Sia per le conseguenze fisiche sia per quelle psicologiche che si possono protrarre anche a lungo, cambiando l’esistenza di una persona. Le donne che hanno abortito confessano di non poter dimenticare ciò che è accaduto. «Lui c’era, ma io non l’ho voluto». È il dramma di come la vita umana nascente sia affidata «totalmente» alla protezione della madre, che senza un adeguato consiglio e aiuto, anche economico, avrebbe potuto decidere diversamente. Ed è anche il dramma di una società dell’indifferenza incapace di accorgersi dei disagi e delle fatiche degli altri.

Ma la sentenza della Corte americana è anche segno dei tempi che sono cambiati. Il dato di abortività negli Usa è il triplo di quello italiano. Ormai una gravidanza su cinque viene interrotta, mentre le procedure abortive con la RU486 (l’aborto farmacologico) hanno superato per la prima volta quelle chirurgiche. Da noi le linee di indirizzo del ministro della Salute, Roberto Speranza, dell’agosto 2020 hanno reso possibile fino a nove settimane di gravidanza (prima erano sette) l’uso della RU486, autorizzando l’aborto anche nei consultori in violazione della legge 194. L’esito è stato che nei primi tre mesi di quest’anno la pillola abortiva è stata usata nel 29,6% delle interruzioni volontarie di gravidanza e negli ultimi tre mesi nel 42%: un incremento notevole. I 66.000 aborti del 2020, un terzo dei quali di donne straniere, secondo i dati forniti dalla relazione del Ministero della Salute, sono decisamente troppi per il nostro Paese che a marzo di quest’anno ha toccato il minimo dal 1861, 399.431 nascite, mai così poche dall’unità d’Italia.

L’aborto come lo abbiamo conosciuto tende a scomparire, perché diminuisce in proporzione al calo delle nascite, perché viene praticato nelle prime settimane di gravidanza e può avvenire anche in casa, senza più recarsi in ospedale. Questo porterà a nasconderlo e a renderlo un semplice «atto medico» personale. L’interruzione della vita di un nuovo essere umano diventerà un fatto totalmente privato, sollevando lo Stato da ogni dovere di approntare percorsi per superare le cause che portano una donna ad abortire e alleviando la coscienza collettiva dalla responsabilità di accogliere ogni bimbo come suo membro, degno di venire al mondo e di essere rispettato e amato come uno di noi.

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