Alleanze strategiche
per vincere le elezioni

Di regola ad agosto anche la politica va in ferie. Non questo ferragosto. Non è andato in ferie neppure il Covid. Tanto meno la crisi economica. Lo sanno bene gli italiani. Costretti a rinunciare alle vacanze estive, si sono limitati al mordi e fuggi di giornata. Soprattutto, non è andata in ferie la politica. Incombe il doppio voto di settembre: referendum sul numero dei parlamentari ed elezioni regionali. La maggioranza, che non gode di buona salute, non può permettersi di subire un nuovo infortunio elettorale. Per parare il colpo Pd e M5S non hanno trovato di meglio che accelerare quella convergenza politica che era nei fatti da quando hanno dato il via al Conte bis. I grillini, con una votazione estemporanea niente meno che alla vigilia di Ferragosto, hanno autorizzato alleanze locali con i dem, con buona pace dei dieci lunghi anni, passati a demonizzarsi. Un voto estemporaneo, si diceva, forse organizzato in tutta fretta proprio perché si sapeva che non sarebbe stato facilmente digerito dal loro popolo.

Tuttavia, per quanto sollecitato a più riprese da Zingaretti per non perdere le due regioni in bilico – Marche e Puglie – la stipula di un’alleanza con i populisti pentastellati, considerata strategica, non risulta indolore nemmeno per il Pd. Seguiamo brevemente la storia: dalla caduta del muro di Berlino, la sinistra si è trovata in mezzo al guado, non trovando pace fino alla nascita del Pd nel 2007. Sembrava fatta. Finalmente, poteva presentarsi come l’alternativa alla destra. L’ambizione, coltivata a lungo, per quanto con risultati nel complesso poco incoraggianti, è stata pesantemente mortificata nel 2018. Il voto (poco più del 20%) è stato un bagno di sangue. C’era poco da insistere sulla vocazione maggioritaria delle origini. Fatica inutile ambire a divenire il corpo stesso del centro- sinistra. Meglio accettare di esserne solo una costola.

L’aggancio un anno fa dei Cinquestelle non è stato perciò una scelta di ripiego, suggerita dall’eccezionalità del momento: scongiurare la consegna del Paese al barbaro Salvini. Era, a ben vedere, l’unica chance a disposizione del Pd se non voleva consegnarsi, con pochi voti e nessun alleato, a un destino di marginalità. La consapevolezza (presunta) della propria solidità a fronte dell’insostenibile leggerezza dei grillini (poca competenza, pochissima credibilità come forza di governo, zero classe dirigente) ha convinto Zingaretti che un connubio con i Cinquestelle non si sarebbe risolto in una grillizzazione della sinistra, bensì in un’osmosi dei grillini nel polo progressista. Ha fatto specie il modo in cui si è ufficializzata la svolta che dovrebbe essere «storica» (parola di Di Maio), senza l’ombra di un dibattito interno. Ne è nato il sospetto che il matrimonio sia di convenienza, propiziato dalla comune aspirazione dei due partiti, riassumibile in due parole: durare e spendere.

A dire il vero, un vero collante tra i due ci sarebbe. Si chiama statalismo, assistenzialismo, bonus e sussidi a pioggia, ovviamente a debito. Un bel pasticcio, però, per il Pd. Gli risulterebbe difficile avere la botte piena e la moglie ubriaca, allargare il consenso col supporto dei populisti e passare per il partito della responsabilità, abbracciare i fautori del debito «cattivo» e applaudire le proposte di Draghi per un debito buono...

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