Anche sacrifici
non solo vantaggi

Le delocalizzazioni sono la croce dell’economia italiana. Abb, Gnk, Whirlpool hanno chiuso i battenti e anche gli ammortizzatori speciali straordinari offerti dal governo non bastano per indurle a rimanere. Embraco, sempre del gruppo Whirlpool, produttrice di compressori per frigoriferi in Piemonte, di colpo chiude nel 2018 e licenzia 500 dipendenti. L’azienda è sana, non ha debiti, e dal 2012 al 2016 ha raddoppiato gli utili. Ma per la multinazionale non basta, e in Slovacchia i costi sono ancora più bassi. La domanda è: perché le aziende vanno incontro ad un danno di immagine con vertenze che si trascinano nel tempo e ledono la loro reputazione pur di delocalizzare?

Se guardiamo i flussi di emigrazione delle aziende si notano due tendenze: una verso i Paesi dell’ Est Europa, l’altra verso gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, cioè in economie tra le più avanzate nel mondo. I dati della Cgia di Mestre mostrano il problema italiano: un’ economia a metà strada fra le produzioni tradizionali - modello ‘900 - e quelle più avanzate versione Industria 4.0. Dal 2015 ad oggi si sono fatti passi avanti e un buon gruppo di medie e medio grosse imprese è riuscita ad imporsi sui mercati internazionali e con un surplus nelle esportazioni ha di fatto salvato l’economia italiana. È riuscita a creare il made in Italy, ovvero un marchio che si distingue sul mercato ed è sinonimo di qualità oltre che di stile. Nella globalizzazione dei semilavorati che rende tutto standard e anonimo, avere un’ identità che distingue è basilare per sottrarsi all’interscambiabilità. Cioè al fatto che il prodotto fino a quel momento realizzato con successo, di colpo non lo è più, perché un altro sito produttivo è riuscito a far calare ancor di più i costi. Garantire qualità è l’ antidoto.

E per far questo occorre essere sempre un attimo in anticipo sul concorrente. Un momento che si misura però in anni. Questi sono i lassi di tempo necessari per gli investimenti. E qui conta molto anche quello che uno Stato è in grado di offrire al suo settore produttivo. Vale la pena citare Aristocrazia 2.0 di Roger Abravanel: «I migliori atenei non producono abbastanza ricerca e tecnologia eccellente, e hanno pochi incentivi a farlo perché la gran parte dei loro finanziamenti pubblici è legata al numero degli studenti, non all’eccellenza del settore ricerca e sviluppo». La qualità si ottiene con l’innovazione tecnologica. Sono molte le imprese che denunciano la mancanza di personale qualificato e questo in un Paese che ha un indice di disoccupazione (10,5%), doppio rispetto alla Germania. Con il passaggio alle energie alternative, grande sarà la richiesta di personale in grado di operare in settori sempre più tecnologici, e quindi complessi.

Ecco perché le delocalizzazioni sono un po’ il termometro che misura la febbre del paziente Italia. Il modello è Singapore, un Paese che non ha risorse naturali, e ha investito nel capitale umano dei suoi giovani. In proporzione, ha il doppio dei nostri ingegneri e manager. Sarà una transizione che come tale va regolata. Le multinazionali che licenziano a cuor leggero in vista della massimizzazione dei profitti non possono sottrarsi alla responsabilità sociale verso il territorio in cui operano.

È istruttivo il modello francese che esclude decisioni unilaterali delle aziende ed obbliga a coinvolgere le parti sociali. Va fermata l’arroganza dei grandi gruppi che, distribuiti ai quattro angoli del pianeta, alla fine finiscono per non render conto a nessuno. La questione è sul tavolo del governo. Va rivisto l’impianto normativo affinché l’Italia non diventi terra di conquista. Condivisione dei vantaggi, ma anche dei sacrifici. Questa è la sovranità che uno Stato deve richiamare.

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