Auto cinesi, pesare bene le condizioni di un’apertura

MOTORI. Siamo a un tornante cruciale per l’industria automobilistica europea, uno dei pilastri della manifattura del continente e dell’Italia in particolare.

La tagliola delle regole di Bruxelles sulla transizione ecologica e la competizione cinese sulle vetture elettriche rischiano di essere fatali per il comparto, perlomeno per come lo abbiamo conosciuto finora. Parliamo di centinaia di imprese e decine di migliaia di lavoratori a rischio, solo in Italia. In una fase tanto critica, seppure con colpevole ritardo, negli ultimi mesi nel nostro Paese si è andato formando un nuovo consenso su una possibile strategia futura: per mantenere e aumentare i livelli di produzione di auto nei nostri confini, non è più sufficiente la presenza degli stabilimenti di Stellantis, cioè dell’ex Fiat diventata nel frattempo una multinazionale a trazione francese, ma è necessario almeno un altro costruttore.

Vanno in questo senso le parole del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che lo scorso 28 febbraio, alla Camera, ha parlato di un dialogo avviato da mesi con la statunitense Tesla e di approfondimenti in corso con tre società cinesi di auto elettriche. Il gruppo americano è quello geopoliticamente (e culturalmente) più affine, ma anche il più ambito ed esigente (ha già un impianto in Germania che gli provoca qualche grattacapo).

Sulla possibilità di aprire le porte del Paese all’insediamento di gruppi cinesi dell’automotive, c’è un’inedita convergenza tra Governo, industriali e sindacati. Le parole di Urso, infatti, sono state precedute lo scorso dicembre da un appello dei sindacati dei metalmeccanici (Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil) che, con un’iniziativa unitaria dopo anni di divisioni, si sono detti anch’essi favorevoli a «reclutare» un costruttore di auto di Pechino, suggerendo di concedergli fabbriche in disuso, come quella ex Maserati di Grugliasco. La stessa idea è caldeggiata con insistenza, e a dire il vero con qualche mese di anticipo, dal presidente di Federmeccanica, Federico Visentin, per il quale un player cinese in Italia potrebbe realizzare quelle utilitarie elettriche che nessun gruppo europeo è in grado di produrre e che potrebbero essere appetibili per i redditi meno alti. Perfino l’Anfia, l’associazione di tutta la filiera automotive, la pensa così.

Il fatto che tutti i principali player dell’auto siano d’accordo nell’auspicare l’ingresso di un produttore cinese non ne fa automaticamente una strategia vincente. Intanto dovremmo poter assicurare, non solo a parole, un ecosistema economico davvero attrattivo per un investitore internazionale, imponendo il rispetto di leggi e diritti italiani, ma con uno sforzo non indifferente per offrire garanzie su certezza del diritto e della contrattazione aziendale, come anche sui costi di infrastrutture, logistica ed energia. Inoltre noi stessi dovremmo ottenere in cambio alcune garanzie da un eventuale investitore cinese. Prima di tutto in termini di sicurezza. Solo qualche giorno fa, infatti, il Presidente degli Stati Uniti Biden ha acceso un faro sui «rischi per la sicurezza nazionale» associati alle auto cinesi e alla loro capacità di raccogliere dati sensibili in Occidente. Gli stessi servizi segreti italiani, nella loro Relazione annuale, definiscono l’auto come un settore «dalla natura sempre più strategica per l’utilizzo di beni dalla forte valenza geoeconomica (quali semiconduttori e batterie, nonché tecnologie avanzate, come robotica, automazione e intelligenza artificiale)».

Infine ci sarebbero da spuntare garanzie di tipo economico. L’Italia ha bisogno di un costruttore di auto, non di un mero assemblatore. Solo così potremmo preservare giro d’affari e know-how del tessuto industriale nazionale (con i suoi lavoratori). I precedenti storici non mancano. Nel 1980, nel pieno della competizione commerciale e tecnologica tra Washington e Tokyo, la giapponese Honda annunciò l’apertura di un suo impianto produttivo nei confini statunitensi. Si trattò di una risposta spintanea, a seguito del crescente protezionismo americano nei confronti delle vetture «made in Japan». L’esempio fu seguito da altre aziende nipponiche che conquistarono così quote importanti di un ricco mercato. Cosa ci guadagnarono gli Stati Uniti? Una concorrenza internazionale meno spietata sui costi, modelli di auto che piacevano ai loro consumatori, e migliaia di nuovi posti di lavoro – spesso qualificati - per i propri cittadini. Riprendendo il motto attribuito a Cesare, «si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum»: se non puoi sconfiggere il tuo avversario, fattelo amico. Può valere anche per l’Europa alle prese con l’auto elettrica «made in China».

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