Automazione
e doti umane

Che i processi di automazione stiano radicalmente alterando i nostri stili di vita professionali e sociali è ormai un’ineludibile realtà. L’evoluzione della robotica e i vorticosi sviluppi della digitalizzazione sono oggi in grado di soppiantare non solo le tradizionali mansioni ripetitive, ma anche quelle più complesse e sofisticate. Ci sentiamo tutti meno protetti, meno indotti ad osare, meno sereni nel compiere scelte di vita individuali e, soprattutto, familiari di lungo periodo perché non siamo più in grado di pianificare neppure i nostri prossimi tre, quattro anni di vita lavorativa. Il fenomeno sta interessando trasversalmente un po’ tutti i settori produttivi, compreso quello bancario dei cosiddetti colletti bianchi, da sempre raffigurato nel nostro stereotipato immaginario come l’avamposto di una stabilità d’altri tempi, un po’ grigia, ma resistente agli scossoni della contemporaneità. È di questi giorni la notizia che la Banca nazionale del lavoro abbia deciso di non sostituire seicento dipendenti, che usciranno per quota 100 e «opzione donna», grazie all’utilizzo di macchine affidabilissime, in grado di agire velocemente nelle molte soluzioni lavorative richieste.

A lanciare l’allarme sul rischio automazione per i lavoratori è intervenuto recentemente uno studio dell’Ocse, l’autorevole Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico alla quale partecipano i 57 più importanti Paesi del mondo: «Il 15% dei posti di lavoro in Italia potrebbe presto scomparire, mentre un posto di lavoro su tre, pari al 35,5%, potrebbe subire sostanziali cambiamenti nel modo in cui viene svolto o, comunque, verrà eseguito con mansioni molto diverse da quelle attuali». Lo studio riferisce anche che la media Ue è, rispettivamente, del 14 e 32% e che i Paesi meno a rischio sono quelli con un maggior numero di lavoratori con un’istruzione universitaria. A maggior rischio di automazione sono invece i Paesi, come il nostro, a bassa produttività e con tassi di disoccupazione molto elevati. I dati dell’Ocse confermano le stime allarmanti di numerosi economisti secondo i quali un posto di lavoro su due e, quasi certamente, uno su cinque potrebbe presto essere sostituito da intelligenza artificiale.

Già nella seconda metà del secolo scorso uno dei più grandi economisti, John Maynard Keynes, aveva previsto l’avvento della «disoccupazione tecnologica»: «La robotica presto renderà possibile la creazione di una generazione di macchine tanto intelligenti da poter sostituire non solo la manodopera pesante, ma anche i colletti bianchi». Keynes si mostrava preoccupato dell’incapacità di adattarsi nel breve termine al cambiamento per «l’inadeguatezza delle istituzioni e dell’intera società a gestire, organizzare e reggere il ritmo del cambiamento tecnico e le ripercussioni dell’innovazione sui lavoratori».

Le preoccupazioni di Keynes rispecchiano appieno l’attuale condizione di molti lavoratori che si trovano impreparati a quel continuo aggiornamento e allargamento delle proprie competenze, indispensabile per riqualificarsi adeguatamente in altre attività. Ben vengano, allora, risposte intelligenti e tangibili come quella dell’Università di Bologna Alma Mater Studiorum, che dall’anno accademico 2019-2020 ha ideato e fatto partire un nuovo corso di laurea magistrale in «Artificial intelligence», con l’obiettivo di «creare competenze in grado di progettare, realizzare e gestire progetti innovativi di intelligenza artificiale». Tale iniziativa, proveniente dal mondo scientifico, dovrebbe insegnarci che l’automazione, pur rappresentando un oggettivo rischio per molti lavoratori, possa e debba al tempo stesso essere vissuta come una concreta opportunità. Certo, perché ciò avvenga occorrono creatività, passione e coraggio. Come dire, per vincere sulle macchine, occorre mettere in campo quelle doti umane che proprio dalle macchine ci differenziano e sempre ci differenzieranno.

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