Autonomie regionali
e strategia nazionale

Il partito del Pil fa fatica. Lo blocca il conflitto con il Sud d’Italia. Intendiamoci, le opposizioni sono anche al Nord ma non bloccano la dialettica tipica di una società moderna. Il reddito di cittadinanza è percepito invece come divisivo perché si identifica con un’idea di Paese dove non sono gli investimenti a creare lavoro e sviluppo ma solo l’assistenza dello Stato. Le elezioni hanno consacrato una divisione del Paese che è geografica ancor prima di essere sociale. Il decreto Genova nato per la ricostruzione del ponte è diventato in corso d’opera il lasciapassare per il condono edilizio di Ischia.

E questo ad opera di un partito che ha fatto della lotta alla corruzione e all’abusivismo la sua bandiera. Costruire un ponte per far lavorare Genova, dare ad Ischia una nuova occasione per piangere. Alla prossima calamità le case costruite con lo sputo non terranno ed alte saliranno al cielo le richieste di risarcimento dei loro proprietari. Che lo Stato pagherà con i soldi dei contribuenti. I quali sono domiciliati per lo più dove si lavora.

Per tener in piedi il Sud bisogna caricare di balzelli il Nord. Il quale non tiene più il peso e se ne vorrebbe liberare. E questo spiega il disagio delle classi produttive che aspirano all’autonomia e per bocca dei presidenti di Regione del Veneto, della Lombardia, del Friuli Venezia Giulia e dell’Emilia Romagna chiedono di poter godere di una deregolamentazione. Portato a livello regionale il processo decisionale si accorcia e si creano spazi per una maggiore flessibilità. La macchina amministrativa è stata lasciata alla piccola borghesia meridionale (si vedano i saggi di Sabino Cassese) che, cresciuta nel tempo all’ombra dei potentati locali, non conosce l’idea del bene pubblico. E questo spiega molto della difficoltà di riformare la burocrazia statale. Prima che un sistema è una mentalità. Questo è un tema che va affrontato. Manca invece una strategia di respiro nazionale e si perseguono solo obiettivi per il proprio elettorato. Il quale è localmente definito: al Sud il reddito per chi non lavora e non può lavorare per mancanza di offerta credibile e al Nord la pensione perché appunto si è lavorato e non oziato. E sarebbe anche sensato per la parte produttiva del Paese tacitare i focolai di protesta al Sud con una mancia istituzionalizzata. A condizione che si generi una strategia di sviluppo che comporti il rilancio industriale del Paese e quindi il risanamento del Sud. Prima di tutto la malavita organizzata. Non la si elimina in un colpo sapendo quanto è radicata sul territorio ma riacquistare la sovranità e l’ imperio della legge è la prima condizione per un Paese civile. Al Sud non mancano classi intellettuali di livello, anche una tradizione che si riconduce alla borghesia illuminata del settecento e ottocento napoletana.

Sono ceti sociali oscurati dal malessere generale e non emergono come invece sarebbe necessario. Il primo problema del Meridione è la classe dirigente. Si grida, si urla, si insulta per farsi poi guidare dal solo criterio stringente: l’emergenza. Il Nord non può lavarsi le mani e delegare agli altri la colpa. Il modello di sviluppo ha le sue radici nella Pianura Padana e la borghesia industriale del Paese deve avere un’idea di come renderlo praticabile in tutta Italia. Non con compromessi più o meno sottobanco con chi si pensa abbia il potere al Sud. Sembra pragmatismo ma è invece solo rassegnazione. L’unica alla quale tutti sembrano obbedire. Così si guarda all’Europa come a chi dovrebbe risolvere i problemi italiani. Sarà bene toglierci questa illusione. Vale ancor oggi un detto universale mai smentito: aiutati che Dio ti aiuta.

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