L'Editoriale
Sabato 11 Giugno 2022
Bce, addio superpoteri nel momento sbagliato
Gli esperti la chiamano «normalizzazione» della politica monetaria. Detto in altre parole, la Banca centrale europea (Bce) giovedì ha ufficializzato che i suoi «superpoteri» stanno per svanire nel nulla: stop agli acquisti di titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona come durante la crisi del debito o la pandemia, via libera al rialzo dei tassi di interesse di riferimento che - con un doppio rialzo a luglio e poi a settembre - potranno tornare in terreno positivo, infine nessun progetto concreto per predisporre un nuovo «scudo anti spread» come invece qualche analista aveva sperato alla vigilia.
Per tutta risposta ieri (venerdì 10 giugno) le Borse europee hanno continuato a perdere terreno, mentre lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi, che misura il rischio percepito dagli investitori rispetto al nostro debito pubblico, è schizzato oltre i 230 punti. Comprensibile, potrà pensare qualcuno, che gli investitori siano rimasti impressionati - nonostante il preavviso delle scorse settimane - dal fatto di trovarsi davanti a una Banca centrale disposta a rinunciare ai suoi superpoteri. D’altronde l’acquisto di titoli di Stato durava da otto anni, mentre i tassi nell’Eurozona non aumentavano addirittura da undici anni.
Ma lo spaesamento degli investitori non è l’unica spiegazione dello scivolone delle Borse. Chi opera sui mercati, infatti, è inseguito da un altro dubbio di un certo rilievo: se fino a qualche giorno fa la presidente della Bce, la francese Christine Lagarde, ci aveva spiegato che l’inflazione nell’Eurozona è dovuta soprattutto al caro energia, conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina, in che modo potrà mai aiutare un rialzo dei tassi? Forse la Bce, con le sue mosse, ha voluto semplicemente mostrare al mondo che non intende rimanere inerme, fosse anche solo per placare a una certa ansia che l’inflazione genera storicamente nella prima economia dell’Eurozona e nel primo azionista della Bce, la Germania. Come direbbero gli americani, insomma, potremmo essere di fronte una sorta di «virtue signalling» applicato alla politica monetaria, più che a una scelta ponderata ed economicamente motivata.
Quale che sia il motivo di tale scelta, è un dato di fatto che in questa fase all’interno della Bce adesso prevale il timore per l’inflazione rispetto all’esigenza di puntellare la crescita. Da questo seguirà un aumento del costo del denaro che frenerà ulteriormente la ripresa post-pandemia, già zavorrata dalle conseguenze della guerra in Ucraina. Tassi di riferimento più alti si traducono infatti in mutui più cari per decine di milioni di cittadini e in prestiti più onerosi per milioni di imprese. Un problema aggiuntivo per i Paesi ultra indebitati come il nostro, che da ora in poi dovranno faticare di più per convincere i futuri acquirenti di titoli di Stato.
Il tutto mentre dagli Stati Uniti arrivano segnali quantomeno contraddittori. Oltreoceano la ripresa dell’economia è robusta, certo, ma i prezzi corrono ancora più rapidamente che da noi. L’inflazione a maggio ha fatto segnare più 8,6%, come non accadeva dal 1981. Un campanello d’allarme che potrebbe spingere la Federal Reserve ad accelerare la sua stretta di politica monetaria. Ecco spiegato perché ieri la notizia ha spinto ulteriormente verso il basso i listini, a Wall Street come pure nel nostro continente.
Grande è la confusione sotto il cielo, in definitiva, e dunque è più che legittimo chiedersi se fosse proprio questo il momento giusto, per l’Eurotower, per annunciare al mondo di volersi privare dei propri superpoteri.
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