Bergamo è smart
se guarda agli ultimi

Smart. Ovvero la città moderna, intelligente, iperattiva e capace di produrre servizi sempre più competitivi. Quante volte abbiamo parlato di smart city in questi anni? Innumerevoli, inseguendo il mito dell’efficienza urbana, strizzando l’occhio ad una tecnologia sempre più aggressiva e ad un modello di vita iperconnesso. Di quelli che dovrebbero far risparmiare tempo rendendo tutto più facile, veloce e a portata di clic, valorizzando al massimo quello che viene definito il capitale umano.

Bergamo su questo versante ha fatto passi da gigante, scalando posizioni su posizioni nell’IcityRate fino ad arrivare al 5° posto in Italia. Era 18ª nel 2015. Un risultato sicuramente di prestigio, che proietta la nostra città al vertice nella categoria medio-piccole e che conferma un trend positivo sul versante dell’innovazione e della competitività. Colpisce molto il 2° posto alla voce «solidità economica», una sorta di conferma della vitalità del tessuto produttivo, capace di superare anche brutti momenti di crisi. Di quelli che però hanno lasciato sul campo molta, troppa, gente, spesso sacrificata sull’altare di una competitività a tratti sfrenata e senza regole. Esuberi, gente rimasta fuori dai processi produttivi dall’oggi al domani. Ma anche vittime di storie familiari finite male che sono scivolate silenziosamente sempre più ai margini di tutto. Per una felice coincidenza il 5° posto di una Bergamo ad alta velocità è arrivato lo stesso giorno della presentazione dei progetti a sostegno degli ultimi. Sette associazioni che si occupano di marginalità unite sotto un nome emblematico - «Il Ponte» - per dare aiuto a quelli che qualcuno chiama «invisibili». Ma che si vedono benissimo ogni giorno nelle nostre strade, a patto di non chiudere gli occhi o girare la testa dall’altra parte, come troppo spesso accade. Sono 700 solo nella nostra città, ma potrebbero essere anche di più e - sia ben chiaro - non sono un problema di degrado né di ordine pubblico, ma di umanità. Quella che forse stiamo perdendo giorno dopo giorno, anche trincerandoci dietro i soliti distinguo di maniera che non aiutano né risolvono il problema.

La Bergamo smart e quella degli ultimi sono la stessa città, quella che corre e quella che è rimasta indietro: spesso la seconda è purtroppo l’amara conseguenza della prima, quando il capitale non diventa più umano, ma privo di umanità. Crescere e diventare più efficienti può fare bene a tutti, a patto di non puntare solo su chi ce la fa, lasciando indietro il resto. Che resto non è. Bene quindi la città smart, quella che luccica, intelligente e capace anche di arrivare 3ª per il verde urbano, 5ª per trasformazione digitale e 6ª per mobilità sostenibile e ricerca e innovazione, ma benissimo la Bergamo capace di unire le forze e guardare verso il basso con uno spirito di carità. Quella pronta ad offrire un giaciglio, un tetto dove stare a chi tra poche settimane avrà a che fare con i rigori di un inverno che non fa sconti. Che ogni giorno dà un pasto caldo che non è solo cibo, ma speranza: quella di essere ascoltati nella propria normalità. Un bisogno di raccontarsi per tenere insieme i pezzi di una vita allo sbando. Essere davvero smart, intelligenti e produttivi vuol dire anche essere capaci di vedere quello che non c’è in queste classifiche. Non ridurre tutto a qualche app che ci fa fare le cose più veloci (e del tempo risparmiato che ne facciamo davvero?) o a numeri, inseguendo un mito digitale che spesso ci porta a guardare più lo schermo dello smartphone che quello che ci scorre davanti agli occhi ogni giorno. Essere smart vuol dire non dimenticare mai gli ultimi nelle nostre città, perché solo così si può diventare davvero primi.

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