Bonafede, la mina
Il governo rischia

Domani (mercoledì 20 maggio, ndr) approda in Parlamento la cosiddetta «questione Bonafede», e cioè il tentativo di diversi gruppi politici di sfiduciare l’attuale ministro della Giustizia, incappato in gravi infortuni come le accuse rivoltegli dal magistrato palermitano Di Matteo, e soprattutto le scarcerazioni di tanti boss mafiosi per il pericolo Covid. La tensione cresce per la ragione che il piccolo partito renziano, ancora penalizzato dai sondaggi d’opinione che lo danno inchiodato al 3 per cento, minaccia di votare la mozione di sfiducia individuale presentata da +Europa per la firma di Emma Bonino. «Per noi il testo è perfetto» va dicendo in giro Renzi che ricorda che Italia Viva dispone di 17 senatori - il Pd ne ha 35 - determinanti per qualunque votazione su cui il governo rischi qualcosa.

E in effetti, se dovesse rotolare la testa di Alfonso Bonafede, di rischi ce ne sarebbero parecchi: il Guardasigilli non solo è un intimo del presidente del Consiglio . fu addirittura Bonafede a presentare Conte a Di Maio come possibile componente del «governo ombra grillino» - ma è il capodelegazione del M5S in Consiglio dei ministri da quando il titolare della Farnesina ha lasciato il ruolo di guida. E poi il responsabile della Giustizia non è un ministro di serie B: in qualunque governo una sfiducia che lo dovesse colpire avrebbe serie ripercussioni politiche generali. Renzi dunque approfitta della circostanza per alzare il prezzo, chiedere di essere tenuto in maggiore considerazione nelle decisioni di Palazzo Chigi (oltre che, si immagina, nella distribuzione delle quote di potere nel sottogoverno) e soprattutto sperare che Bonafede si decida da solo, prima della prova, di fare un passo indietro dando da solo le dimissioni. Una simile mossa di necessità porterebbe fatalmente ad una redistribuzione degli incarichi ministeriali.

Si dirà: con i guai che abbiamo, sono i soliti giochini del palazzo romano. Sì, però è anche vero che questo barcollante governo non può correre il minimo rischio nel momento in cui affronta, con il varo del decreto «Rilancio», la prova della ripartenza nazionale. Se davvero le dimissioni forzate o volontarie di Bonafede dovessero portarci ad una crisi di governo, saremmo l’unico Paese al mondo che si prende il lusso di mettere in discussione il proprio governo nel bel mezzo di una pandemia e di una gigantesca recessione. Dal Quirinale non a caso stanno scendendo i soliti moniti: non vi illudete che dopo Conte - forse il vero destinatario dei colpi di Matteo Renzi - non c’è un altro governo ma solo l’interruzione anticipata della legislatura.

Che potrebbe anche verificarsi ma, nei piani di Mattarella, non prima della prossima primavera quando la pandemia si spera che sia diventata un tragico ricordo e l’economia abbia ricominciato a marciare a ritmi normali. Fino ad allora non sono ammessi scherzi da parte di nessuno, tantomeno da parte del partito più piccolo della coalizione. Non bisogna neanche dimenticare che ieri, grazie all’accordo franco-tedesco, il Recovery fund ha cominciato a prendere forma prima ancora che la Commissione presenti la sua proposta: l’ipotesi che, sulla base del bilancio comunitario, si faccia debito comune per reperire ricorse da destinate come sussidi a fondo perduto alle zone più colpite dal Coronavirus, supera d’un colpo tutte le resistenze dei piccoli paesi nazionalistici del Nord che finora hanno tirato il freno a mano (Olanda, Danimarca, Austria, Svezia, Finlandia) e per quanto non si arrivi che alla metà della cifra auspicata (si tratta di 500 miliardi di euro, mentre il Parlamento europeo ne chiedeva 1.000) è un passo avanti quasi insperato. Questo per Conte, Gualtieri, il governo italiano costituisce un bel sospiro di sollievo: non dovrà mozzarlo il caso Bonafede insieme alle agitazioni renziane.

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