Brexit, difficile
uscire dall’Ue

L’ ultima dimissione è la più dolorosa, se n’è andato anche il ministro che ha condotto le trattative con l’Unione Europea. Dominic Raab ha lasciato il suo mandato da ministro britannico per il Brexit con la seguente motivazione: in buona coscienza non posso appoggiare questo accordo. Mette in pericolo l’integrità territoriale del Paese e sotterra la sovranità britannica. Dopo di lui se ne sono andati altri due ministri. Alla seduta di ieri alla Camera dei Comuni è apparso chiaro che la maggioranza dei deputati conservatori è sulle posizioni del ministro dimissionario.

Theresa May combatterà sino «all’ultima fibra del suo essere» per far passare il compromesso raggiunto con l’Unione Europea ma un sì da parte del Parlamento è quantomeno problematico. Da qui la prima osservazione: per i britannici il tema principale è la sovranità, hanno scelto di uscire dalla Ue per ritornare al principio «la Gran Bretagna padrona a casa sua». Succede però che è impossibile tornare ad una dimensione di assoluta padronanza della propria sovranità perché l’appartenenza all’Unione è talmente ramificata che di fatto costringe a venire a patti con il proprio interlocutore.

La questione irlandese ha potuto essere risolta perché sia Irlanda che Gran Bretagna erano membri dell’Unione Europea. Essere parte comune di un tutto semplifica perché costringe a mettere da parte gli orgogli nazionalistici. Gli estremisti dell’ala protestante filo britannica unitamente ai terroristi dell’Ira sono stati messi a tacere: i vantaggi di una collaborazione commerciale ed economica erano di gran lunga superiori agli odi confessionali ed etnici. Infatti le armi sono tornate a tacere in questi anni. Adesso la proposta è di lasciare tutto com’è e attendere che nei prossimi anni almeno fino al 2020 si possa raggiungere un accordo ragionevole per entrambe le parti. In questo lasso di tempo, non quantificato esattamente, la Gran Bretagna dovrà pagare i contributi come se fosse un membro dell’Ue a tutti gli effetti. Lo stesso dicasi per la pesca dove i fondali britannici sono ambiti e sinora condivisi a quote definite con i partner europei. Lo stesso dicasi per Gibilterra, dove la Spagna ambisce a mantenere il suo influsso nella speranza di erodere la sovranità britannica sullo scoglio strategico che divide il Mediterraneo dall’Atlantico.

L’indignazione in Gran Bretagna è grande e già si parla, in caso di eccessive pretese spagnole, di invio della flotta, del genere guerra delle Falkland negli anni ottanta al tempo di Margaret Thatcher.

Ambizioni nazionalistiche alimentate dalla nostalgia per il «British Empire» che ora si scontrano con la cruda realtà: la Gran Bretagna è solo un’isola e per di più divisa al suo interno. I problemi che travagliano la trattativa nella campagna elettorale per il Brexit del 2016 non sono stati menzionati, oppure sono stati ridicolizzati. Questa superficialità si ripercuote come un boomerang e rende il Paese vulnerabile alle richieste dell’Unione Europea. Si temeva che i 27 si dividessero al loro interno ed è successo esattamente il contrario. Questa è la grande lezione anche per l’Italia. Quando ci si contrappone ad un blocco di 27 Paesi organizzati è difficile tener testa come singoli Stati. E nella polemica di Roma contro la Commissione di Bruxelles sono proprio quei Paesi che hanno fatto del sovranismo la loro bandiera a battersi per una procedura di infrazione contro l’Italia. L’Austria di Kurz e Stracher, uniti da un comune sentire , gli olandesi di un governo conservatore e appoggiato dai nazionalisti. Il sovranismo ha il suo prezzo: l’isolamento. Ed è giusto che sia così, perché tutti sono a questo punto legittimati a perseguire l’interesse nazionale e solo quello. L’unico problema è che va detto per tempo agli elettori.

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