Burocratese
da combattere

L’oscurità, ma ancor più spesso, l’ottusità del linguaggio burocratico è uno dei più vistosi guasti delle amministrazioni pubbliche. Guasti che si riversano quotidianamente sui cittadini, costretti a confrontarsi con modi di dire e con forme espressive che sembrano fatte apposta per non far capire cosa si chieda o si risponda a una persona che entra in contatto con un ufficio pubblico. Basterebbe una limitata serie di esempi di nefandezze linguistiche ricavate dal linguaggio delle amministrazioni a riempire lo spazio di questo articolo. Quindi, si eviterà di farlo, provando a ragionare su origini e possibili soluzioni del problema. Hegel sottolineava che il linguaggio «intricato» della burocrazia prussiana era «instrumento di dominio». Gramsci osservava che il funzionario italiano scriveva non per farsi capire dal cittadino, ma per frasi approvare dal suo superiore. Sua volta, Italo Calvino definiva il burocratese una «antilingua».

Nelle amministrazioni pubbliche ha storicamente prevalso l’intoccabile principio che leggere, e parlare, «difficile» fosse un segno di distinzione e un emblema del proprio (magari microscopico) potere. Contro questa irragionevole distacco tra istituzioni e cittadini - a causa del quale lo Stato è stato sempre sentito come un’entità lontana, nemica - tentò di intervenire nel 1993 l’allora ministro Sabino Cassese, al quale si deve un Codice di stile mirato a fornire strumenti di semplificazione del linguaggio; dopo di lui ci provò Franco Bassanini nel 1996 con un Manuale che seguiva lo stesso tracciato. Ma i risultati – nonostante i generosi tentativi e le ripetute sperimentazioni – non sono stati appaganti. Occorre concludere che c’è molto da fare su questo terreno.

Quindi, cosa fare? Affidare all’Accademia della Crusca il compito di sconfiggere l’annosa abitudine delle amministrazioni pubbliche ad usare un linguaggio poco comprensibile non è molto convincente. Ha le sembianze di mossa propagandistica, che ha scarse possibilità di produrre gli effetti voluti. Una soluzione di tal genere parte dal presupposto che sia necessario un soggetto esterno per risolvere il problema, perché da sole le amministrazioni non sono in grado di produrre cambiamento. Inoltre, rivolgersi all’antica Accademia è come usare un mitra per sparare alle mosche, che infastidiscono con il loro ronzarci intorno. I sapienti linguisti potrebbero senza alcun dubbio dettare regole e dare suggerimenti per una scrittura ineccepibile, sia sotto il profilo stilistico, sia per rigore grammaticale e sintattico.

Ma questo è soltanto un aspetto del problema e nemmeno il più importante: è difficile immaginare che un sia pur rigoroso «manuale» di scrittura possa incidere realmente nelle modo di scrivere di milioni di pubblici funzionari. Il punto nodale non è l’utilizzo di parole complicate o inusuali, non è nemmeno l’abuso di costruzioni complicate delle frasi. Se fosse così, la soluzione sarebbe semplice. In realtà, l’oscurità del linguaggio burocratico è frutto del culto della segretezza, della scarsa propensione a mettersi dalla parte di chi deve leggere e capire. Per molti impiegati pubblici è importante che la lettera, l’ingiunzione, il provvedimento siano inattaccabili sotto il profilo formale. La sostanza, per il burocrate, non fa parte dei suoi compiti.

Occorrerebbe agire sui presupposti. Chi scrive – non vale soltanto per gli uffici pubblici – dovrebbe avere in mente le esigenze del destinatario: fornire in modo più chiaro possibile le informazioni necessarie, evitando quelle superflue o inutili. Approccio che si può ottenere operando sulla mentalità del funzionario pubblico il quale, quando si rivolge ad un cittadino, non deve vestire i panni dell’autorità quanto, piuttosto, le vesti di colui che ha il compito di informarlo sui suoi diritti e sui suoi doveri; su cosa debba fare e su quale sia il modo migliore per farlo. Non occorre scomodare gli accademici, che vanno rispettati e non ridotti a consulenti delle amministrazioni: servono buoni dirigenti, dalla mentalità aperta, i quali abbiano la consapevolezza che un impiegato pubblico deve sempre scrivere per fornire un servizio, non per sottolineare il proprio potere.

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