Cambio di passo
con le riforme

Il Next Generation Ue - piano di aiuti da 750 miliardi approvato dal Consiglio europeo il 21 luglio scorso - sarà per la prima volta finanziato con «debito comune» raccolto sui mercati attraverso titoli europei (Eurobond). Il piano prenderà corpo, quindi, quando avrà ricevuto i fondi dal mercato, cosa che avverrà senza grandi problemi visto che la prima emissione di titoli per 10 miliardi effettuata per finanziare il Sure ha superato i 100 miliardi di sottoscrizioni. Ai fondi del piano si aggiungeranno quelli del budget pluriennale proposto per il 2021-2024, che varrà complessivamente 1.100 miliardi e che, dopo la recente approvazione del Consiglio europeo, attende quella scontata del Parlamento europeo. L’utilizzo del piano è legato a condizioni assai stringenti che fanno riferimento alla natura dei progetti da finanziare, ai tempi della loro realizzazione e alle riforme da mettere in atto per riavviare la crescita e rendere ogni Paese «resiliente», in grado di affrontare e superare autonomamente eventi traumatici e periodi di grandi difficoltà.

I progetti da finanziare dovranno essere incanalati in tre pilastri: investimenti e riforme nell’ottica della transizione verde e digitale; rilancio dell’economia della Ue attraverso l’incentivazione dell’investimento privato; realizzazione di un programma per la salute che permetta di prepararsi alle crisi pandemiche del futuro. Al rispetto di tutte queste condizioni è condizionata l’approvazione dei progetti via via presentati alla Commissione. Al nostro Paese, che manifesta da anni un problema di scarsa crescita legato alla bassa produttività e alla perdita di competitività, è stata particolarmente richiamata la necessità di riforme che riguardino la pubblica amministrazione, la giustizia, il fisco, l’istruzione e la ricerca.

Una volta superate le polemiche legate alla proposta di una «task-force» slegata dalle dirette responsabilità del Consiglio dei Ministri e del Parlamento, il governo dovrà organizzarsi per presentare alle Camere una «struttura operativa» che raccolga un’ampia adesione e che si dimostri adatta a individuare gli investimenti compatibili col piano e, soprattutto, a seguirne la loro efficace attuazione. C’è da augurarsi che per gli aspetti prettamente operativi si dia massimo spazio all’impiego di «manager» di alto profilo, visto che negli ultimi sette anni sono stati utilizzati solo 16 miliardi di fondi strutturali sui 40 assegnati e che entro il 2023 dovremo stanziare 135 miliardi e farci approvare piani per circa 70 miliardi. Sorprende, peraltro, che il dibattito in corso abbia completamente trascurato il tema delle riforme, espressamente richiestoci dall’Europa. In particolare, la riforma del fisco per rendere più agevole e accettabile pagare le tasse da parte di cittadini e imprese, quella della giustizia per accorciare i tempi dei processi penali e di quelli civili che hanno un impatto determinante sugli investimenti privati, così come quella della pubblica amministrazione, per rendere possibile l’eliminazione dei continui ritardi burocratici e sbloccare i numerosi appalti rimasti incompiuti.

Con un’amministrazione pubblica così pletorica e demotivata come quella attuale sarà dura gestire «la transizione ad una economia verde» voluta dall’Europa. Così come in salita appare il compito di realizzare un’estesa «rivoluzione digitale», in presenza di una giustizia che affoga in un mare di carte e con un fisco che da decenni non riesce a realizzare un piano efficace di rientro dall’inflazione. Il «Piano nazionale di ripresa e resilienza» pubblicato dal governo ripartisce in modo sommario i fondi assegnati dal Next Generation Ue, destinando stanziamenti insufficienti a sanità, scuola e ricerca. Non contiene, peraltro, salvo ulteriori interventi in ambito parlamentare, valutazioni critiche sulle ragioni dei ritardi del Paese, né delinea una prospettiva di crescita di lungo periodo. Sarebbe quanto mai opportuno che si riflettesse sulle parole semplici e assai incisive con cui il governo francese ha presentato il piano «France relance», con orizzonte 2030: «Investimenti per trasformare il tessuto economico e sociale, piuttosto che riportarlo alla situazione prima della pandemia».

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