Cardinali, la forza
autentica del Vangelo

La linea è ancora più diritta così come la strada che segna il Vangelo. Papa Francesco la indica ai nuovi cardinali in una basilica di San Pietro dove le sue parole risuonano ancora più scintillanti per via della pandemia che l’ha svuotata. È il settimo Concistoro del Pontificato e Bergoglio riassume in una frase memorabile ed esemplare il suo magistero sul potere e la gloria. Dice ai nuovi cardinali che quando sentiranno di essere soltanto «la eminenza» allora capiranno di essere «fuori strada». È un altro capitolo alla predicazione sulla corruzione sacerdotale. Precisa che il rosso porpora dell’abito cardinalizio è il colore del sangue, ma può diventare anche il simbolo della corruzione, quando, «per spirito mondano» segna quello di una «eminente distinzione».

Una volta i cardinali erano definiti i senatori della Chiesa, «eminenze» collocate sullo scranno più alto. Invece non è così. Bergoglio lo aveva ben spiegato cinque anni fa, secondo Concistoro del Pontificato: «Cardinale evoca il cardine; dunque non qualcosa di accessorio, di decorativo, che faccia pensare a una onorificenza, ma un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità».

Anche questo fa parte del processo di riforma della Chiesa. Francesco sta smantellando quel criterio di rappresentanza e di potenza con cui si definiva storicamente il Collegio cardinalizio. Il cardinalato era il premio a vescovi e a sedi episcopali dove i cattolici erano maggioranze, sigillo di una Chiesa visibile e della sua gerarchia, in quella parte del mondo dove la cristianità aveva più a che fare con il potere che con il Vangelo. Bergoglio ha scombussolato le cose, secondo il metodo che anche il ministero petrino è servizio alla comunità ecclesiale. E se vale per il Papa vieppiù vale per i cardinali. Ha sbaragliato la tesi delle sedi cardinalizie e ha creato cardinali che riuscissero ad imprimere con più forza il senso di movimento della Chiesa. Insomma non più cardinali-senatori con l’esclusivo diritto elettorale, ma cardinali rappresentanti della partecipazione del popolo di Dio in Conclave. Jorge Mario Bergoglio è riuscito nell’impresa in questi quasi otto anni di pontificato di rendere più visibile anche all’interno del Collegio cardinalizio il principio di sussidiarietà, di migliorare la relazione tra centro e periferie, di ascoltare con maggior rispetto i carismi del popolo di Dio e la dignità delle diverse culture. Così l’appellativo di eminenza ha perso quell’aurea di sovranità, retaggio lungo delle dottrina assolutiste e ha acquistato quella della forza debole del Vangelo, che non traffica con la politica e il potere.

Bergoglio ha cambiato i criteri della scelta. Se prima avveniva quasi sempre attorno a due criteri, uno diplomatico e uno politico, da cui pastori-diplomatici e pastori-politici, con l’aggiunta del criterio geografico dove la cristianità era più strutturata, con Francesco si percorrono terre incognite e per alcuni sorprendenti. Le nomine cardinalizie non sono più la ricompensa per le alte percentuali di cattolici, ma a volte esattamente l’opposto, segno della dinamicità di piccole comunità aperte al dialogo e capaci di spendere bene i talenti del Vangelo. La creazione nel Concistoro di ieri del primo cardinale del Brunei che ha tre chiese e quattro preti e una manciata di cattolici ne è l’esempio perfetto. Così come la percentuale di cardinali che viene da Paesi poveri, dove la Chiesa tribola con il potere di un’economia che non include, che divide e che uccide. Sono quasi la maggioranza (46 per cento) del Collegio cardinalizio. È la certificazione della paternità spirituale, fino all’effusione del sangue, l’unica decisiva per un cardinale.

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