Caso bonus
Paga il Parlamento

Il più lesto a cavarsi d’impaccio è stato il governatore del Veneto Luca Zaia, sicuro vincitore delle prossime elezioni regionali, che ha immediatamente escluso dalla sua lista tre consiglieri regionali che avevano chiesto e ottenuto il bonus per i lavoratori autonomi. Zaia non ci ha pensato due volte, non ha traccheggiato, non si è imbarazzato: si è disfatto dei tre, incurante delle loro proteste e rassicurazioni sull’uso «benefico» dei soldi ricevuti dallo Stato. Diverso l’atteggiamento di Matteo Salvini che, avendo imposto solo il silenzio stampa ai sospettati leghisti (almeno tre su cinque, dicono), si prepara all’ennesima battaglia difensiva e prova a reagire accusando l’Inps di aver provocato una fuga di notizie utile politicamente.

A chi? Ai Cinque Stelle, naturalmente. Il presidente dell’ente previdenziale, sodale di Luigi Di Maio, giura che sia stata una «gola profonda» a rivelare che ben cinque parlamentari si erano avvalsi dei bonus pur guadagnando dodicimila euro al mese, ma molti – non solo Salvini – vedono in questo scandalo un bell’aiuto al M5S che dovrà vincere la battaglia referendaria del 20 settembre sul taglio dei parlamentari.

Se c’era anche una remota eventualità che la riforma potesse essere bocciata, lo scandalo dei «cinque furbetti» l’ha furiosamente spazzata via. Chi mai si opporrà al «taglio delle poltrone» se tra i parlamentari ci sono persone così inqualificabili da sottrarre a chi ne ha bisogno il sostegno di 600 euro in un momento tanto difficile? E Salvini sospetta la «manovra» grillina non perché non condivida la riforma, quanto perché il successo del referendum consentirà al M5S di oscurare l’altrettanto certo bagno di sangue elettorale che subirà nelle regioni dove si andrà a votare.

Nel frattempo, si è aperto un dibattito su come correggere il bonus, impedendo che vada a persone perfettamente in grado di cavarsela anche nei tempi grami della crisi economica post-Covid. Ci si chiede perché non sia stato imposto un tetto di reddito per poter usufruire del sussidio: «Perché dovevamo fare presto» è stata la risposta, in verità poco credibile, della viceministra all’Economia Castelli (M5S). In realtà, al di là della giustezza del provvedimento, da nessuno contestato, il bonus è stato anche uno strumento utile alla raccolta del consenso politico alla maggioranza governativa, e quindi limitarne la platea dei possibili beneficiari avrebbe anche ridotto la sua efficacia elettorale. Peccato però che le lentezze burocratiche abbiano diminuito l’efficacia della misura dilatandone i tempi di erogazione, tant’è che si è ancora in attesa dei mille euro di maggio che dovrebbero essere distribuiti in forza del decreto di agosto da poco varato dal Consiglio dei ministri. Ne consegue che probabilmente al governo e a Conte arriveranno più lamentele e critiche che applausi.

Ora poi che si è saputo che quei soldi sono andati anche a parlamentari nazionali e regionali, di sicuro si aggiungeranno reazioni di rabbia. Il risultato di tutta questa vicenda è l’ulteriore delegittimazione dell’istituzione parlamentare: da molti anni sotto il bombardamento del populismo «anti-Casta» (che prende il nome da un fortunatissimo libro di due giornalisti), il Parlamento ha perso potere e rappresentatività. Anche perché le leggi elettorali hanno così bloccato il meccanismo di selezione della classe politica da mandare a Roma rappresentanti del popolo assai meno qualificati del popolo medesimo. È di questi giorni il carnevale di sarcasmi intorno al neo presidente grillino della Commissione Affari europei (competente sul piano europeo del Recovery Fund da 209 miliardi) che ha la terza media e che prima di diventare onorevole, al suo paese vendeva canarini e criceti in un negozio per animali di cui era commesso.

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