Cina, caccia alle imprese la difesa della Pirelli

MONDO. Il cosiddetto «golden power» esercitato dal governo su Pirelli, nell’ambito del rinnovo del patto para-sociale, di fatto un altolà ai soci di maggioranza di Sinochem-ChemChina, si muove su una strada stretta: quella di salvaguardare le nostre prerogative nazionali e nel contempo mantenere i buoni rapporti con il Drago, tutelando tutte quelle imprese (e non sono poche) che fanno affari con Pechino.

Questa è la ragione principale per cui è stato adottato, più che un «golden», un «soft power». Era necessario, poiché l’Italia è stata per troppo tempo terreno di scorrerie finanziarie di altri Paesi. Il governo, come ha fatto sapere il ministro dell’Industria Adolfo Urso, ha già giocato questa sorta di jolly 13 volte con altre imprese straniere, dagli Stati Uniti a Cipro, dalla Turchia alla Francia. Tutti Paesi - a cominciare dai cugini d’Oltralpe - bravissimi nel sostenere e teorizzare il libero mercato internazionale, a patto che non si tocchi il proprio, nel qual caso diventano più protezionisti di Colbert.

Stesso discorso per i cinesi, che posseggono il 37% dell’azionariato della Pirelli, la prestigiosa multinazionale italiana degli pneumatici e delle gomme fondata nel 1872 dall’ingegner Gian Carlo, quotata in Borsa fin dal 1922, oggi presente in 160 Paesi del mondo, con stabilimenti in Messico, in Argentina, in Indonesia e in Romania. La Sinochem-ChemChina fa capo direttamente al governo di Xi Jinping e rappresenta in pieno quella strana mistura di capitalismo iperliberista in salsa comunista e centralista che è il sistema economico cinese.

Le imprese di Pechino stanno conquistando il mondo, dall’Africa all’Estremo Oriente con l’intento di penetrare anche nella vecchia Europa. Tra l’altro, a proposito della Pirelli, la posta in gioco è altissima: riguarda le scelte strategiche del gruppo e la proprietà intellettuale della tecnologia «cyber tyre» di ultima generazione. I sensori impiantabili negli pneumatici permetteranno infatti al guidatore di ottenere in tempo reale i dati sull’asfalto, sulla velocità consentita, sulla tipologia del terreno e altre informazioni utili alla sicurezza. Una sorta di sensore tattile digitale sofisticatissimo, frutto della ricerca degli ingegneri e dei tecnici italiani, su cui ChemChina vorrebbe mettere le mani. Ma il governo italiano ha decretato che il socio di maggioranza dovrà limitarsi a incassare i dividendi e partecipare ai ricavi. Nessuna ingerenza nella governance, nelle decisioni strategiche, nei poteri operativi e nello sviluppo tecnologico. I cinesi devono restare solo un socio finanziario come fossero un Fondo di investimento. Non possono nemmeno parlare e intereagire con il management. I manager saranno solo espressione italiana, ovvero del gruppo Camfin di Marco Tronchetti Provera, socio di minoranza con il 14% (il gruppo Brembo è presente con il 6% e il resto è costituito dal «flottante»).

Tutto questo avviene alla vigilia della scadenza degli accordi politico-commerciali con la Cina (definiti un po’ pomposamente la Via della Seta) che vedono coinvolti anche importanti gruppi italiani, come la Cassa depositi e prestiti Reti, che gestisce gli investimenti partecipativi di Snam, Italgas e Terna per sostenere lo sviluppo delle infrastrutture strategiche del Paese. Come si vede il discorso è molto delicato. La via della Seta è molto stretta. E soprattutto non deve essere a una sola direzione. Quella da Pechino a Roma. Anche perché Washington vorrebbe che l’Italia, in una logica di «nuova guerra fredda», la abbandonasse, perché considerata dagli Stati Uniti un corridoio cinese per penetrare in Occidente in senso imperialistico ed egemonico

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