Covid, fare chiarezza: è una lezione per il futuro

Il commento. La morte degli uomini non è come la morte dei polli. Quando si riscontra l’influenza dei polli in uno o più allevamenti si procede all’uccisione di tutti i polli infetti. Il motivo è la tutela della salute umana. Anche gli animali vanno curati se possibile, ma in questo caso la posta in gioco è troppo alta per rischiare. Questo modo di fare non lede i diritti degli animali, ma semplicemente antepone il bene della vita umana, messa a rischio dall’infezione aviaria.

L’Istituto nazionale della sanità riporta alcuni studi dove si prevede che il global warming (il riscaldamento globale) favorirà le migrazioni di specie selvatiche, soprattutto volatili e di tutti i loro virus, in aree densamente popolate, ponendo le premesse per nuove pandemie. Basterebbe questo per prendere sul serio la questione dell’aggiornamento costante del Piano nazionale di preparazione e risposta alla pandemia, fortemente caldeggiato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ma soprattutto fare scelte che in questo momento siano ispirate al principio di precauzione che impone alle autorità governative e amministrative di fare un’azione di prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche. In parole semplici quando c’è di mezzo la salute bisogna essere pronti oggi, per quello che potrà capitare domani, anche se ancora non è suonato alcun allarme. L’esperienza del Covid ci ha insegnato che quando si riscontrano i primi contagi è già troppo tardi per prevenire.

C’è poi la questione di quale importanza dare alla salute. Il concetto stesso di salute infatti ha subito uno stravolgimento per colpa del liberismo individualista che privilegia i diritti di libertà rispetto ai doveri nei confronti della comunità. Pensare che l’assistenza sanitaria debba sottostare alle regole del mercato aziendale vuol dire non vedere che viviamo in una società di profonde disuguaglianze sociali dove chi può pagare può avere tutto subito e chi non può deve aspettare. Provocare una selezione dei pazienti, per un accertamento diagnostico o per un intervento chirurgico, in base alle loro capacità di pagare è una grave ingiustizia. Vuol dire avallare la legge del più forte. Il ricco può usufruire del diritto alla salute e alle migliori cure, mentre il povero, pur avendo gli stessi diritti, non può provvedere adeguatamente alla sua salute o a quella dei suoi cari.

A questo si aggiunge il paradosso culturale che esalta la salute come benessere individuale, ma poi accetta la morte di persone anziane o con patologie perché rientrano nella categoria dei «fragili». Purtroppo durante la pandemia si è usata anche questa giustificazione per rassegnarsi alla morte di tante persone come se la «fragilità» fosse una colpa piuttosto che la condizione stessa dell’esistenza umana. Prendersi cura della salute vuol dire prendersi cura dell’uomo nella sua totalità, senza escludere nessuno. La salute infatti è tanto un bene personale, perché strettamente legato alla vita di ciascuno di noi, quanto un bene comune e pertanto il primo da tutelare. Su questo principio operativo non c’è stato accordo. «In claris cessat interpretatio» (se le cose o le leggi sono chiare cessa l’interpretazione) dicevano i latini. La nostra Costituzione è chiara sulla «tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (articolo 32), ma lo devono essere anche le norme e le procedure da adottare soprattutto in situazioni di emergenza.

C’è poi la responsabilità di chi per mandato politico o per il posto istituzionale che occupa deve per prima cosa pensare al bene delle persone e delle comunità. Il fatto che ci siano diversi soggetti responsabili è motivato dalla necessità della vicinanza. Se lo scopo delle istituzioni è il servizio reso alla persona, più esse sono vicine alla gente e a chi è nel bisogno in quel momento e più dovrebbero avere il potere di decidere e operare. Altrimenti che senso avrebbero Pronto soccorso, Protezione civile, forze dell’ordine? Fa male sentire che ci sono stati «contrasti sulla gestione» della zona rossa e «non era definito chi dovesse e potesse fare e cosa». Per questi motivi e per gli altri che stanno emergendo grazie all’inchiesta della Procura è giusto fare chiarezza e accertare eventuali responsabilità, non per cercare a tutti i costi dei colpevoli, ma per evitare errori analoghi in futuro. Questo significa avere a cuore il «tu» collettivo e prendersi cura delle future generazioni.

I familiari delle vittime da Covid in Bergamasca non sono solo coloro che, con coraggio e tenacia, stanno portando avanti questa causa, ma tutti noi che abbiamo perso qualcuno in quei giorni terribili e ci sentiamo solidali nella sofferenza. E se è anche vero che «prima o poi tutti dobbiamo morire» facciamo in modo che la loro morte non sia stata vana. La morte di un uomo non è mai cosa di poco conto.

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