Diabolico Trump
e dunque indifendibile

La chiamata alle armi di Donald Trump, che nella Casa Bianca respira da giorni l’odore acre della sconfitta, è oggettivamente sovversiva. Per almeno due ragioni. La prima è che denunciare un complotto ai danni degli elettori per far vincere il candidato democratico, senza avere non si dice una prova ma almeno un elemento reale di sospetto, ed essendo il presidente in carica e non un tizio qualunque al bar, è una follia istituzionale. La seconda è che questa tattica non è improvvisata ma, al contrario, lucidamente e luciferinamente pianificata.

Già mesi fa, quando i sondaggi favorivano Joe Biden, Trump diceva che il voto per posta sarebbe stato truccato. Oggi non fa che mettere in atto il piano costruito allora, anche a costo di gettare nel caos un Paese già provato dal Covid, dalla crisi economica, dal razzismo e da una spaccatura politica che non va sottovalutata. Biden ha incassato il record dei voti popolari per singolo candidato, ma non trascuriamo il fatto che anche Trump ha preso più voti che nel 2016.

Questa uscita di scena squallida e in un certo senso violenta squalifica Trump e, com’è ovvio, getterà una luce sinistra su tutta la sua presidenza, impedendone un’analisi intelligente e oggettiva. Colpa sua, come sua è la responsabilità della pessima gestione dell’emergenza pandemia, che è una delle cause principali dell’odierna sconfitta.

Detto questo, bisognerà anche tenersi lontani dai pianti e lai delle solite anime belle, che per faziosità politica tendono a dimenticare le passate esperienze. Come Trump nessuno. Ma lui non è certo stato il primo a delegittimare il processo elettorale degli Usa. Nel 2000, George Bush figlio divenne presidente ai danni di Al Gore solo perché la Corte Suprema sentenziò che i voti decisivi della Florida (dove lo scarto era stato dello 0,1%) non potevano essere riconteggiati in tempo utile. Nello stesso tempo, sei giudici su nove misero nero su bianco che le autorità dello Stato (repubblicane, cioè del partito che aveva già portato Bush padre alla Casa Bianca e l’altro fratello Bush alla carica di governatore del Texas) avevano violato ogni regola della correttezza elettorale.

Più vicino a noi, non fu Barack Obama, nel 2016, prima del voto che avrebbe visto Trump vincitore e la Clinton sconfitta, e cioè quando lui era ancora presidente, a dire che i famosi hacker russi stavano «truccando» le elezioni? E a ripeterlo per mesi e mesi, finché arrivò il rapporto del superprocuratore Mueller a smentirlo? E non è forse vero che la presidenza Trump è stata traforata dalle rivelazioni di funzionari che venivano meno al dovere di fedeltà a un presidente magari ripugnante ma democraticamente eletto, senza che alcuno (tranne i soliti pochi, ovviamente sbeffeggiati) si chiedesse se, in quei casi, si facesse un danno alla nazione e alla credibilità delle istituzioni?

Nessuno di questi argomenti scusa Trump e i suoi maneggi, ovviamente. Ma certe astuzie non le ha inventate lui. E se certi suoi trucchi sono ora possibili, molto dipende dall’assurdità del sistema elettorale americano, dove in pratica ogni autorità fa un po’ quel che gli pare. Chi conta i voti prima e chi dopo, chi li manda per posta e chi no, chi li conta col computer e chi a mano. Per non parlare di chi vota un mese prima della data fissata, alla cieca. E la cosa prosegue anche quando non si vota. Per esempio con il «gerrymandering», ovvero con la pratica, da parte dei governatori, di ridisegnare i confini dei collegi elettorali in modo da favorire i candidati del proprio partito. Lo fanno sia i repubblicani sia i democratici, per questo nessuno fiata.

È incredibile che la superpotenza americana non abbia ancora posto rimedio a questa disfunzione. Trump sarà dimenticato. Ma negli Usa si voterà anche quando non ci ricorderemo più di lui, e rischierà sempre di essere un pasticcio.

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