Economia i rischi
del ritorno dello Stato

Il dibattito sul tema dell’intervento dello Stato in economia, contrapposto al ruolo del libero mercato, ha percorso gran parte del Novecento. Da qualche tempo, però, sul piano politico le posizioni sembrano essersi inaspettatamente capovolte. Fino a trenta anni fa, prima dell’avvento della globalizzazione, non avremmo esitato a definire «di destra» i fautori del libero mercato, cioè di quella «mano invisibile» che secondo Adam Smith avrebbe massimizzato il benessere della collettività. Di «sinistra», viceversa, coloro i quali, condividendo il pensiero di John Maynard Keynes, auspicavano un’economia tenuta in ordine dall’egemonia economica dello Stato.

Oggi buona parte della sinistra - in particolare il Pd - è a favore del «mercato» ed è ben lontana dal teorizzare la necessità d’interventi pubblici «massicci». La componente di destra attualmente al governo, invece, sempre più marcatamente populista e sovranista, sembra condividere con gli alleati del M5S la riproposizione di un modello economico che prevede un crescente, urgente intervento dello Stato. Ne è recente testimonianza la decisione di privilegiare un’impresa pubblica per la ricostruzione del ponte Morandi di Genova, così come il proposito di risanare l’Alitalia attraverso l’intervento di aziende statali. Si tratta, insomma, di un sensibile cambio di prospettiva rispetto al recente passato caratterizzato dalla convinzione, diffusa nella maggioranza delle forze politiche, che al fine di ottenere una gestione efficiente delle attività produttive la proprietà privata garantisse un assetto di governance più efficace rispetto a quello pubblico. Il management di un’impresa privata, infatti, è assunto con criteri meritocratici ed è sottoposto nella propria attività al controllo degli azionisti, dei creditori e del mercato.

Nell’impresa pubblica, invece, i meccanismi di governance molto spesso sono poco efficaci o del tutto assenti. Accade anche che alcuni manager di società pubbliche siano rimossi o confermati prevalentemente per ragioni politiche. In un’impresa pubblica, infatti, il ruolo dell’azionista è attribuito alla classe politica che, in non pochi casi, ha a cuore interessi ben distanti da quelli prettamente orientati ad una gestione efficace ed efficiente dell’impresa. Tutte considerazioni, queste, frutto dei tanti insegnamenti ricevuti in eredità dal dopoguerra in poi. Tra questi, quelli che hanno caratterizzato l’attività delle «partecipazioni statali», molte delle quali, dopo un buon avvio grazie alla scelta di manager illuminati, col passare del tempo hanno evidenziato sprechi e irregolarità, tanto da rendere necessari interventi finanziari dello Stato per evitare dolorosi fallimenti. Tra questi l’Alitalia che fino ad ora ha richiesto esborsi dello Stato per circa due miliardi di euro.

Quando il mercato non funziona come dovrebbe, è opportuno intervenire attuando una più puntuale «regolamentazione», piuttosto che ampliando a dismisura gli ambiti d’intervento pubblico. Il rischio, altrimenti, è d’intraprendere una china pericolosa, che una nuova tendenza alle nazionalizzazioni fa già presagire. Lo testimoniano alcune prese di posizione di autorevoli esponenti politici, così sintetizzabili: una superficiale sottovalutazione del ruolo e delle potenzialità di sviluppo garantite dal mercato; una scarsa considerazione per i rischi derivanti dal nostro enorme debito pubblico; una sostanziale minimizzazione rispetto al rischio per le classi meno abbienti derivante da un aumento dei tassi d’interesse; un’incapacità di comprendere la rilevanza, per il corretto andamento del sistema democratico, dell’indipendenza di imprese, banche, giornali e istituzioni. Tutto ciò, mentre giovani cervelli, cospicui risparmi e progetti d’investimento lasciano il nostro bel Paese con sempre minori nostalgie.

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