Elezioni in Provincia,
ma non per tutti

Il turno di elezioni provinciali di domani non sarà una festa democratica, come invece dovrebbe sempre essere un momento elettorale. Il popolo non è convocato, le elezioni sono di secondo grado, riservate ai già eletti nei Comuni, portatori di voti in proporzione alla dimensione del proprio municipio. Già così, si vede l’anomalia. Consiglieri comunali, scelti nell’urna secondo criteri locali, in gran parte talmente locali da rappresentare liste civiche, dovrebbero trasferire questo mandato tanto diverso in un consesso più ampio, con altre finalità e altra visione, certamente in un’ottica più strettamente politica.

Così ha voluto la legge Delrio, che non ha abolito, ma tentato di svuotare, lasciandolo a terra ferito e smarrito, il più antico organo rappresentativo italiano, transitato onorevolmente dalla Monarchia di Carlo Alberto alla Repubblica. È stato solo l’inizio dell’ondata lunga dell’antipolitica, culminata nell’astruso taglio del Parlamento sei anni dopo, che oggi è motivo non solo di pentimenti ma anche di seri problemi istituzionali, visto che intere Regioni, solo perché piccole, rischiano di non essere presenti a livello legislativo.

È la stessa esperienza già vissuta nelle Province, con il taglio non già dei costi e delle competenze ma degli esecrati eletti, capri espiatori punibili per il solo fatto di occuparsi della cosa pubblica, colpevoli a prescindere. In territori – prendiamone uno a caso: Bergamo - con oltre un milione di abitanti, quasi 250 Comuni, valli, laghi, pianure, città, realtà spesso molto diverse tra loro, grandi pezzi di provincia già non hanno rappresentanti. La casualità delle indicazioni dall’alto può tranquillamente produrre zone affollate di portavoce e zone deserte, senza un senso e una logica, se non quella affannosamente cercata dai partiti.

La strage dei consiglieri, l’assenza formale di assessori sostituiti solo da delegati di buona volontà, l’umiliazione di presidenti fino all’altro ieri neppure remunerati (ma pienamente responsabili in sede civile e penale, con avvocati a loro carico) ha messo il personale politico (e la cittadinanza da loro rappresentata) alla mercé di tagli inverecondi, e affidato solo alla professionalità di funzionari ed impiegati (mai assorbiti da altre amministrazioni come invece si raccontava), dotati comunque di poteri reali ben più pregnanti.

Di fronte a fenomeni economici nuovi, come l’esplosione della logistica, che rivoluziona la mobilità e l’urbanistica, un giorno sì e uno sì ci si lamenta di sindaci lasciati allo sbaraglio, allettati da introiti straordinari per i loro bilanci ma senza un coordinamento, una visione. Capoluogo regionale lontano, capoluogo provinciale inerme, con strumenti di governo spuntati dalla delegittimazione politica dell’Ente. Che almeno il 18 dicembre sia l’inizio di una svolta, di un recupero di razionalità, dopo l’ubriacatura. Contiamo sui presidenti che saranno eletti, sul loro senso democratico, sull’assenza totale nei vertici di tutte le amministrazioni provinciali, di rappresentanti di quell’onda emotiva, portatrice di molti danni, che è per fortuna in grande riflusso.

Contiamo su una legge che Upi ha promosso, e dovrebbe restituire dignità, ruolo, funzione alle Province così come sono oggi nella Costituzione, restituendole alla loro vocazione di anelli intermedi di programmazione e gestione in ambiti larghi, perché così va il mondo, che ha bisogno delle radici municipali ma anche di capacità di guardare più in grande.

In attesa di una revisione complessiva, che parta dai limiti delle vecchie Province, che non debbono certo tornare quelle di una volta, ma ritrovi una funzione che non può essere sostituita né dalle Regioni, da oltre mezzo secolo alla ricerca di un equilibrio efficiente, né da un federalismo solo ideologico.

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