Ma il male non ha
l’ultima parola

Non c’è fatto più innaturale e doloroso della perdita di un figlio, soprattutto se piccolo o nel pieno della giovinezza. Quando accade, il ciclo della vita va in blackout. Quel ciclo solitamente ha una strada saldamente segnata: i genitori mettono al mondo la prole, che cresce attraversando gli alti e i bassi di ogni esistenza. Il padre e la madre trasmettono conoscenze, esperienze e testimonianze, cercando di incanalare la vita dei figli su giuste vie. I genitori invecchiano, la prole si fa grande e diventa (o dovrebbe diventare) l’appoggio per chi ti ha cresciuto: è il momento della restituzione di ciò che si è ricevuto in termini di conforto, vicinanza, compagnia ed assistenza.

In quel ciclo padre e madre non sopravvivono ai figli, non li accompagnano al loro funerale. E invece può accadere che quel percorso parallelo si spezzi, per una malattia o per una morte sulla strada. Le cronache della tragedia di Azzano ci hanno mostrato il dolore devastante di perdite così precoci: Luca, il primo ad andarsene, aveva 21 anni, l’amico Matteo 18. Gli inquirenti stanno lavorando per ricostruire minuziosamente cosa accadde nella maledetta alba del 4 agosto. Il contesto è quello di una notte in discoteca, di litigi, di un’auto e di uno scooter con a bordo i due ragazzi, di un urto mortale. Ma non è questo il punto che vorremmo affrontare qui, quanto ciò che è successo nei giorni seguenti, in un clima segnato dalla sofferenza profonda ma non da parole di odio e di vendetta da parte di familiari e amici dei due giovani. Non è così scontato, soprattutto oggi.

Ha detto Alessio Ferrari, papà di Matteo, a nome della famiglia: «Che la vita sfortunata del mio figlioletto possa aiutare qualcun altro. Nel nostro piccolo vogliamo che la donazione degli organi sia un messaggio. Non ne abbiamo la certezza ma pensiamo che Matteo potesse essere d’accordo. I motivi sono due: il primo è che lui era un generoso. Il secondo è che la donazione è il messaggio che Matteo e la sua famiglia vogliono dare a queste follie. Così Matteo vuole compiere un atto di generosità. Nient’altro. Lo amavamo e lo amiamo immensamente. La giustizia faccia il suo corso». Parole pacate e intense, che danno un senso alla donazione di organi, tutt’altro che un piccolo gesto. Ridà speranze di vita a chi era in pericolo, è il bene che lenisce il male di una morte alla quale non si può dare un senso.

Marco Carissimi, papà di Luca, ha raccontato di essersi posto tante domande nella prima lunga notte senza suo figlio. «Purtroppo - ha detto - non ci sono risposte. Non dovrebbero mai capitare queste cose. Speri sempre che non capitino a te». E a proposito dell’automobilista «non provo nessun sentimento. Dovrò cercare da qualche parte di trovare la forza di vivere con questa cicatrice». Cicatrice è parola esatta, perché la morte di un figlio lascia il segno profondo di quel ciclo che si è spezzato, di ciò che quel figlio avrebbe potuto essere e non sarà.

Le famiglie dei due giovani risiedono in Borgo Palazzo, uno dei quartieri ad aver mantenuto ancora il senso e la dimensione di una comunità: la piazza sempre abitata, una parrocchia e un oratorio vivaci, una polisportiva di livello, l’Olimpia, nata nel 1946 (Luca e Matteo giocavano nella stessa squadra di calcio) e il cinema. Dal quartiere, che ieri si è riunito nella parrocchiale per i funerali dei due ragazzi, sono arrivate alle famiglie tante attestazioni di cordoglio e di vicinanza. «La nostra casa - ha detto ancora il papà di Matteo - è sempre stata aperta. Senza nessun pregiudizio verso nessuno: gialli, neri, alti, bassi, poveri, ricchi. Una pizza, un piatto di pasta. Sempre aperta. Ora stiamo solo cercando di vivere il nostro immenso dolore in modo composto e rispettoso per tutti». Il male non ha l’ultima parola.

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