Emergenza sociale
La politica in stallo

Le previsioni per l’economia italiana sono particolarmente nere, come del resto ci si aspettava: solo la Grecia ci supera nello sprofondo del Pil che per noi toccherà quasi il meno 10% nel 2020 per recuperare parzialmente l’anno prossimo. Sono numeri freddi che però casualmente arrivano nelle case insieme alla notizia del primo imprenditore, un napoletano, che si è suicidato perché non riusciva più a pagare gli stipendi e i fornitori. Tutti sentono che è incombente una grave crisi sociale ed occupazionale dovuta al logoramento di un tessuto produttivo già segnato dalle crisi precedenti e dalla scarsa crescita degli ultimi anni che, per esempio, ha desertificato il Mezzogiorno.
Per il momento c’è come una calma quasi irreale, traumatizzati come tutti siamo dalla pandemia e dai suoi dolori, ma non durerà.

E i primi a saperlo sono i politici che stanno al Governo e anche quelli che siedono all’opposizione: sanno che il tempo rimasto per cercare, se non di prevenire, quantomeno di contenere e guidare l’emergenza sociale è molto breve: bisogna fare in fretta e ogni ritardo dell’azione di governo è una picconata al sistema Italia.

Ma oltre questa consapevolezza, e naturalmente oltre all’impegno delle singole persone, c’è a Roma anche una politica coerente per far fronte all’emergenza? Non rincuorano molto, a dir la verità, le discussioni che stanno ritardando quello che doveva essere il «decreto aprile» e che speriamo sia almeno il «decreto maggio» destinato proprio a sostenere l’economia nazionale, le imprese e le famiglie. Nella maggioranza ci sono molte idee difformi, i partiti assediano il ministro del Tesoro e il presidente del Consiglio anticipando quello che accadrà alla Camera e al Senato quando il decreto, vista la luce, comincerà il suo cammino parlamentare: l’ultimo provvedimento, per dire, è stato assalito dalla maggioranza, più ancora che dall’opposizione, con la bellezza di ben mille emendamenti.

Tanto per dirne una, la ministra Bellanova, capodelegazione di Italia Viva, ha minacciato le dimissioni se i grillini continueranno a contrastare la regolarizzazione dei migranti che lavorano nelle campagne dove gli imprenditori agricoli lamentano la mancanza di mano d’opera per raccogliere la frutta e la verdura. Inoltre le associazioni dei datori di lavoro, in prima fila la nuova Confindustria di Carlo Bonomi, accusano il governo di assistenzialismo e di statalismo, tutto il contrario di quel che le imprese si augurerebbero per affrontare un futuro meno minaccioso. L’ipotizzata riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, avanzata dall’ala sinistra della coalizione, è stata come la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Il Governo con il decreto in gestazione («in stallo» dicono le notizie dell’ultima ora) intende mettere in campo 55 miliardi di euro in deficit, una cifra enorme che equivarrebbe a 110 mila miliardi di vecchie lire, superiore persino alla Finanziaria con cui Prodi e Ciampi resero presentabili i conti pubblici per entrare nel club dell’euro. Dunque un impegno davvero importante. Ma che ha bisogno di sostegno politico e di collaborazione tra i partiti alleati (oltre che, naturalmente, di lealtà dell’opposizione). Ci sarà questo sostegno?

Mattarella ha fatto sapere che non esistono ipotesi di un nuovo governo dopo Conte: se cadesse la coalizione giallo-rossa si andrebbe al voto in settembre (sperando che si possa, naturalmente). In ogni caso il Quirinale vigila sulla stabilità dell’equilibrio politico, indispensabile per affrontare la crisi di cui parlavamo più sopra. I ghirigori di un nuovo governo istituzionale o «di tutti» magari presieduto da Mario Draghi appartengono all’inesausta guerra di trincea che da sempre logora i partiti. La realtà in cui bisogna lavorare è questa, difficile e incerta: per ora non c’è un’altra strada.

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