Equità, sinistra senza ricette

Attualità. Verba sunt consequentia rerum. Se è vero quanto asserisce la celebre massima latina che «i nomi sono conseguenti alle cose», dobbiamo aspettarci grandi novità dal prossimo congresso del Pd. Non cambierà solo il segretario.

È in gioco anche il nome del partito e, poiché il nome - si diceva - è conseguenza delle cose, dovrebbe cambiare anche la sua mission. Il condizionale è d’obbligo. Il partito erede della tradizione comunista, in trent’anni s’è dato tre diversi nomi (Pds, Ds, Pd) ma fino ad oggi l’’unica cosa di cui s’è vista la consequentia è la ricerca inesausta di una mission mai trovata. Né, del resto, offre molti lumi il Manifesto dei valori cui si sono applicati ben 87 saggi. Le novità introdotte sono talmente vaghe («promuovere lo sviluppo sostenibile, lottare contro tutte le disuguaglianze e difendere e rafforzare la democrazia») che si possono conciliare tranquillamente con quelle del precedente Manifesto che pure è stato accusato di ordoliberalismo, bestia nera dei fautori di un ritorno della sinistra ai cari lidi dello statalismo/assistenzialismo, i proponenti appunto della nuova denominazione. Costoro vogliono evidentemente riportare il partito di Letta alla constituency, ai fedeli della sinistra: ossia, stare dalla parte dei lavoratori. Solo che non è più chiaro cosa sia oggi la sinistra e cosa si debba intendere per lavoratore.

La sinistra da cui proviene il Pd aveva un mandato chiaro: il riscatto della classe operaia dallo sfruttamento capitalista. Una missione chiaramente rivoluzionaria. L’opposto del riformismo, ora abbracciato. Non meno sfuggente è il concetto di lavoratore. Un tempo lo era per antonomasia il metalmeccanico in tuta blu con in mano la chiave inglese. Altri tempi. Le vecchie paratie che tenevano separati classe operaia, ceto medio, borghesia sono saltate. Il corpo sociale s’è sfilacciato e differenziato. È diventato di conseguenza difficile per la sinistra individuare e saldare attorno a sé una specifica base sociale.

Stesso discorso per quel che riguarda la sua identità di partito. Congedato il rivoluzionarismo, ha virato sul suo opposto, il riformismo. Pezzo forte storico della socialdemocrazia è stato il welfare state: servizi sociali e protezione giuridica. Due armi, però, spuntate dalla crisi fiscale dello Stato (l’esaurimento delle risorse) e dalla creazione di un mercato globalizzato. Senz’altra specificazione dovrebbe essere questa la sua stella polare. Cambiare nome senza chiarire quale sia la nuova missione non serve a molto. Rischia solo di prolungare la crisi e aggravare l’abbandono degli elettori. Insomma, il cambio del nome pare serva più come omaggio ad un passato glorioso che non come indicazione di un chiaro progetto per il futuro. È quello che invece servirebbe ad un partito che ambisce ad aggregare il campo scomposto della sinistra. Sei mesi di preparazione del congresso non sono bastati a indicare la nuova strada che intende imboccare.

Il confronto tra i candidati alla segreteria s’è perso nella giungla delle procedure elettorali. Ha consumato molte energie per tentare di ricucire la frattura con il piccolo nucleo dei fuoriusciti (Bersani e D’Alema), ma è stato evasivo su come si siano superati i motivi della precedente rottura. Sono molti i temi su cui le voci del partito sono dissonanti: dalla politica estera (in primis la guerra in Ucraina) alla politica fiscale (a partire dalla patrimoniale) e oltre. Ma c’è un quesito cruciale che non ha ancora sciolto. Ricusato l’orientamento favorevole alla libertà di mercato perché responsabile di accentuare la diseguaglianza, qual è la ricetta per ottenere una maggiore equità senza scaricare sullo Stato l’onere di un’insopportabile espansione del debito pubblico e azzoppare con ciò la crescita economica? Fuori dalla gloriosa via indicata dal welfare state, ora non più percorribile, non s’è visto che lo sfoggio delle buone intenzioni.

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