Fanno male quei «no» alle cure palliative

ITALIA. Scandalo e dolore, forse più forte di quel dolore contro il quale ha combattuto e dal quale ha chiesto di potersi liberare. La storia di Mariateresa, la donna di Zogno morta la notte di lunedì, finalmente serena dopo aver lottato per ottenere le cure palliative domiciliari che il suo primo medico di famiglia non le ha voluto riconoscere, lascia senza parole.

Una domanda, quella sì: cosa può esserci di così scientificamente dimostrato, eticamente ostativo, umanamente persuasivo dal convincersi che una persona possa essere lasciata sola a soffrire? Mariateresa non c’è più, ma il suo grido affidato al nostro giornale dieci giorni fa chiede di risuonare alto perché sia riconosciuto il diritto a un tipo di cura che – lo dice la sua storia – probabilmente fa paura. O lo si ritiene inutile. Costoso, forse, visto che si è ormai alla fine?

Chiedeva di non soffrire, non certo di morire, Mariateresa. Quattrocento anni fa – 400 – lo scriveva anche Francesco Bacone: « Io penso che l’ufficio del medico non è soltanto quello di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare i dolori e le sofferenze causate dalla malattia; e non solo quando ciò, come eliminazione di un sintomo pericoloso, può giovare a condurre alla guarigione, ma anche quando, perdutasi ogni speranza di guarigione, tale mitigazione serve soltanto per rendere la morte facile e serena».

Nell’armadio dei ricordi e delle pratiche sapienti delle nostre nonne c’era la «preghiera per una buona morte» e da piccoli il pensiero andava a una sorta di raccomandazione al Padreterno perché nell’ora della fine ce ne potessimo andare, al momento giusto e più in là possibile, senza soffrire e alla svelta. Quel pallium, mantello offerto dalle cure di fine vita dà il tempo di vivere l’ultimo tempo con dignità. Non alla svelta, non più in fretta di quanto il male stabilisca. Semmai più leggeri, più forti del dolore a cui si impedisce di sopraffare, di rubare gli ultimi giorni. Circondati dai parenti più cari, che si sia nell’intimità della propria casa o dentro un hospice, quando i colori sono cambiati e il profilo del volto consegna un’immagine non tua, quante cose ancora restano da raccontarsi e raccomandarsi, quanti sguardi?

È questo il mantello che ancora nel 2023 qualcuno si ostina a non riconoscere perché «tanto non c’è più niente da fare». Varrebbe allora la pena ricordare – ed è un paradosso doverlo fare a un medico – la differenza tra guarire e curare; tra un male di fronte al quale s’è intrapreso ogni tentativo terapeutico, ma è giunta l’ora di dire basta, e una medicina capace di sollevare i malati dal dolore. Che è poi la scelta di mezzo fra il martoriare un corpo ormai definitivamente provato (l’accanimento terapeutico) e il pensiero di chi di fronte al dolore e alla fine senza previsione certa invoca una morte procurata (l’eutanasia).

Non soltanto per i malati terminali. Ben lo sintetizza Patrizia Borsellino, ordinario di Filosofia del diritto e presidente del Comitato per l’etica di fine vita: «Nei confronti dei soggetti affetti da patologie evolutive irreversibili non più responsive a cure, una popolazione ancora assai vasta, anzi, sempre crescente, sia per la comparsa di malattie ad esito infausto, sia per la sempre maggiore diffusione di malattie croniche degenerative correlate al prolungamento della vecchiaia, la risposta della moderna medicina tecnologica, incline a scorgere nel malato che muore la prova tangibile della propria sconfitta, ha, infatti, continuato ad essere o quella del non far nulla, oppure, all’opposto, quella del far troppo, ma nella direzione sbagliata. In ogni caso un malato lasciato solo con la sua sofferenza».

Qui è invece un marito a parlare. Era il luglio 2022, aveva appena perso la moglie dopo cinque anni faccia a faccia con un cancro alle ovaie. «Non possiamo dimenticare quella splendida realtà che ha accolto e accompagnato mia moglie nei suoi ultimi giorni: l’Hospice di Borgo Palazzo, struttura fatta di uomini e donne speciali che con delicatezza ha contribuito a vivere con dignità e, per quanto possibile, sollievo, ogni attimo, fino all’ultimo respiro. Medici, infermieri, operatori e i volontari dell’Associazione Cure Palliative che, in punta di piedi, entrano in ogni stanza portando un sorriso, un gelato, un massaggio a gambe stanche, sostegno ai familiari, aria di normalità. Dentro la storia di questa moglie e mamma che ora piangiamo ricordandone il grande esempio di forza, davvero possiamo dire di aver capito, soprattutto attraverso tutte queste persone che ringraziamo, quanto sia vero che “finché c’è vita c’è vita”».

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