Germania supponente
Ma il virus non si ferma

Ciò che accomuna o divide l’Italia dal resto del mondo ha una sola parola: condivisione. Solo chi ha provato cosa vuol dire Covid-19 può capire le angosce di un Paese ostaggio del contagio. Non gli Stati Uniti e nemmeno gli alleati tradizionali europei possono cogliere la portata sanitaria e soprattutto la dimensione psicologica di un’Italia in quarantena. La Cina ha questa sensibilità. Mentre Trump accusa l’Europa di essere l’untore dell’America, Xi Jiin Ping scrive al presidente Mattarella, solidarizza con l’Italia, invia una squadra di esperti, offre mille apparecchi respiratori, dismessi dopo le emergenze, fornisce mascherine.

L’Italia ne aveva inviate a gennaio meno di un milione, una goccia nel mare dei 50 milioni di abitanti di Wuhan ma, si sa, conta il gesto. Pechino ha i suoi interessi strategici, il successo della via della seta passa da Roma, il governo italiano ha firmato per primo il memorandum of understanding.

Tutto ciò che divide l’Italia dai propri partner fa comodo alle ambizioni del celeste impero con falce e martello, a cominciare dalla rete ultraveloce 5G. Ma è un fatto che a Pechino conoscono la lingua della comunanza nel dolore. Non dicono di far meglio degli italiani, come ha sostenuto una virologa tedesca nella trasmissione di Markus Lanz sul secondo canale Zdf. E non fanno nemmeno larvati accenni all’atavica indisciplina italiana, e all’incapacità di prevenire, come nelle corrispondenze della Frankfurter Allgemeine Zeitung. È ormai accertato che la differenza fra Italia e Germania tende a diminuire, adesso sono duemila casi esattamente come per noi il 3 marzo scorso, otto giorni fa. Angela Merkel l’ha detto, l’epidemia toccherà il 70% della popolazione. Ma le misure di contenimento non sono radicali e vanno a macchia di leopardo, anche per le divisioni fra le autorità decentrate. In Baviera hanno chiuso 100 scuole mentre ad Halle hanno invece chiuso tutte le scuole e gli asili d’infanzia. Per le partite di calcio adesso sono a porte chiuse ma sino a ieri Lipsia voleva il pubblico.

Domina su tutto la convinzione che la struttura sanitaria è la numero uno ed è in grado di tenere l’onda d’urto dell’emergenza. Ci sono 27 mila posti in terapia intensiva, molti più che in Italia, ma è anche vero che circa 23 mila sono occupati . Ne restano quattromila. I posti letto sono 450 mila, dei quali 100 mila liberi. Si possono creare 50 mila postazioni per l’isolamento dei pazienti infetti. Si calcola che con una degenza media di una settimana si possano ospitare 4.000 casi al giorno in terapia intensiva.

Forti di questi numeri, usano la parola d’ordine: situazioni come quelle italiane siamo in grado di fronteggiarle. Lo dice in conferenza stampa Reinhard Busse, condirettore di European Observatory on Health Systems and Policies alla Technische Universität di Berlin. La filosofia è chiara: se non riusciamo a vincere subito, facciamo in modo di guidare gli eventi e condurli là dove vogliamo arrivare. Ovvero, non fermiamo l’economia. Anche il conto del numero dei morti va in questa direzione. Sono conteggiati solo quelli eclatanti. Non si fanno tamponi post mortem. Nel Nord Reno Vestfalia, il Land più colpito con circa 500 contagiati, si rubano negli ospedali le mascherine e i disinfettanti. Il direttore del reparto di virologia della Charité di Berlino, una delle poche voci sagge nel coro, dice di prepararsi all’esplosione dei casi in autunno, quando dopo il caldo estivo gli infetti latenti giungeranno a manifestazione. Morale la strategia è trattare il virus come una influenza e tenere il pericolo sotto controllo in attesa del vaccino. C’è solo un’incognita: si farà intimidire il Covid-19 dalla supponenza tedesca?

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