Gigafactory, Stellantis tra speranze e amnesie

«La rivoluzione non è un pranzo di gala», osservò Mao Tze-Tung. La storia non lo ha smentito, né prima né dopo quel lontano 1927 in cui il leader cinese studiava il movimento contadino nella regione di Hunan. La rivoluzione green contemporanea non fa eccezione alla regola maoista, dunque è difficile stupirsi quando il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, sostiene che la stessa «potrebbe essere un bagno di sangue». Realismo e responsabilità di governo infatti impongono di ragionare sulle sfide legate a un cambiamento tanto profondo della nostra economia, per esempio indicando i possibili costi – in assenza di opportuni accorgimenti e riflessioni strategiche – per tutti noi che paghiamo le bollette.

Nei processi rivoluzionari, come noto, non mancano neanche i momenti di trasporto gioioso, in cui le buone notizie cancellano ogni titubanza. Di nuovo, vale anche per la rivoluzione green.

Ieri, per esempio, Stellantis, quarto gruppo automobilistico al mondo, frutto delle nozze di Fca e Psa, ha annunciato che aprirà in Italia una sua «gigafactory» per produrre le batterie per auto elettriche, la terza voluta dall’a.d. Carlos Tavares dopo i progetti già destinati a Francia e Germania. Nel sito industriale che è stato selezionato, Termoli in Molise, si addenseranno dunque innovazione e ricerca, know-how industriale e occupazione.

Il Governo italiano ha fortemente voluto l’investimento, e non senza buone ragioni. Primo, perché il Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano alloca un miliardo di euro al capitolo «Rinnovabili e batterie», dunque partnership pubblico-privato sono auspicabili; inoltre – come ricordato dal ministro per lo Sviluppo Giancarlo Giorgetti – il gruppo Stellantis già usufruisce di finanziamenti per alcuni miliardi di euro garantiti da Sace (Gruppo Cassa depositi e prestiti); infine – seguendo il filo del ragionamento del ministro Cingolani – non esiste transizione ecologica senza «un cambio molto significativo di infrastrutture e sistemi produttivi», inclusa «la autosufficienza dal punto di vista della produzione delle batterie».

Accolta la buona notizia, sarà bene continuare a inforcare le lenti del realismo per scrutare il futuro della transizione ecologica. Una lezione utile in proposito arriva dagli Stati Uniti, dove l’Amministrazione Biden non teme di delineare i nuovi rapporti di forza globali che discendono dal nuovo corso ecologista. Si legga, per esempio, il primo ponderoso rapporto appena pubblicato dalla task force della Casa Bianca sulla «resilienza delle catene del valore».

Qui si esaminano riforme e strategie per incentivare la progettazione e la costruzione delle batterie fondamentali per veicoli elettrici e non solo, per garantire l’approvvigionamento delle materie prime della transizione ecologica (cobalto, nickel, litio e altri elementi), per rafforzare la manifattura di semiconduttori e farmaci. Un approfondimento minuzioso in cui sono descritti anche i rischi costituiti dai Paesi «avversari», come sono definiti, in primis la Cina: le potenziali restrizioni all’export di terre rare (in alcuni casi Pechino ne ha il quasi-monopolio) o l’utilizzo di pratiche commerciali e normative spregiudicate per piegare la concorrenza occidentale. Senza dimenticare l’obbligo morale che ci sarebbe di non incentivare sistematiche violazioni di diritti umani pur lontane dai nostri occhi.

Nei documenti ufficiali della Commissione europea in materia, come il Digital Compass, della sfida geopolitica cinese invece non si fa menzione. Pure a Bruxelles c’è chi sembra dimenticare che la rivoluzione green non è un pranzo di gala, che «non la si può fare con altrettanta dolcezza, gentilezza e cortesia», sempre per citare Mao.

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