Governo di salvezza
nazionale, siamo vicini

Non siamo ancora all’apoteosi ma ci siamo vicini. Mario Draghi si appresta a guidare un governo di larghe intese, salutato dall’approvazione di tutti i partiti, a parte qualche mal di pancia nella Lega e nei Cinque Stelle. Per celebrare questo governo «dei migliori» vi dovrebbero entrare a far parte - mescolate ai «grand commis» di Stato come Lamorgese o Cottarelli - tutti i big della politica, da Di Maio a Salvini a Zingaretti e naturalmente Renzi. Vedremo. E vedremo come se la caverà il premier incaricato, abituato a gestire il board della Banca centrale europea, ma non a una maggioranza rissosa come quella del Parlamento italiano.

Potremmo chiamarlo un esecutivo di salvezza nazionale, con un programma semplice nei suoi punti da definire e complesso nella sua attuazione. Draghi è stato paragonato a Mario Monti e al suo premierato del 2011. In realtà è molto diverso perché allora si trattò di mettere in campo una manovra «lacrime e sangue» per fermare lo spread e la speculazione internazionale pescando come al solito dove illuminava il lampione, vale a dire pensionati e lavoratori dipendenti.

Oggi invece l’indicatore della sostenibilità del nostro debito sovrano segna il bel tempo e non ci sono alle viste salassi fiscali (e non si vede come potrebbe essere visto lo stato di salute della nostra devastata economia, soprattutto nel terziario nella ristorazione e nel turismo). Al contrario, il banchiere assurto al ruolo di salvatore della patria, contestualmente all’uscita della pandemia, è chiamato a gestire la messe di miliardi del Next generation Eu (il Recovery Fund, per intenderci), attraverso un processo di modernizzazione e rigenerazione dell’economia italiana. Per farlo, avrà a disposizione una tutela europea (da Bruxelles e dalla «sua» Francoforte) senza precedenti.

Di contro, si troverà come ostacolo forse il più volatile Parlamento della storia italiana, attraversato da tensioni e divisioni di ogni genere. Un Parlamento, sia detto per inciso, che non ha avuto molta pietà per l’avvocato Giuseppe Conte e per la sua paziente opera di dialogo con l’Unione europea, capace di portare a casa 209 miliardi di euro. Tutto sembra arridere a Mario Draghi, a differenza del suo omonimo del 2011. Ma se ritorniamo a Monti bastò che l’Italia uscisse dalla tempesta perché, con il raffreddamento dei tassi d’interesse, la politica tornasse quella di sempre, spietata, spregiudicata, rissosa e allergica alle scelte di lungo periodo. Ci si chiede dunque quanto durerà questa concordia parlamentare che vede le forze politiche unite e armoniosamente strette intorno a questo «pater patriae» scelto dal Quirinale, riservato e poco propenso alle dichiarazioni e alle interviste come nello stile dei banchieri (ma dovrà cambiare abitudini).

Draghi infatti rappresenta il fallimento della politica, costretta a fare un passo indietro di fronte al tradizionale governo «tecnico» o misto «tecnico-politico» solitamente affidato agli uomini della riserva nobile della Banca d’Italia. Quanta disponibilità ci sarà da parte delle forze di maggioranza a sua disposizione? Gli daranno credito fino alla fine della legislatura, il tempo di mettere a punto quelle riforme di cui l’Italia ha bisogno (dalla modernizzazione dell’industria allo snellimento della giustizia) o gli toglieranno presto la fiducia? È questo l’interrogativo sospeso.

Il Parlamento italiano è maestro nello scaricabarile e nell’utilizzare il salvatore della patria finché questi è chiamato a svolgere il lavoro sporco e impopolare. Pensare che il senso di responsabilità prevalga, visto quello che è accaduto fin d’ora, con una crisi di governo aperta non si sa ancora su che cosa nel bel mezzo di una pandemia, spinge a non essere particolarmente ottimisti. Manca poco più di un mese alle idi di marzo.

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