Guerre, vittime
e diplomazie

La politica estera, ancella del dibattito pubblico e della cronaca giornalistica italiane, da qualche settimana ha rubato la scena alle altre, solite notizie. Del resto se non ti occupi del mondo, il mondo con le sue dinamiche prima o poi si occupa di te. L’uccisione da parte degli Stati Uniti del generale Qassem Soleimani, responsabile delle operazioni all’estero del regime iraniano, ha rimesso al centro anche il conflitto iracheno, mai sopito dopo la guerra che nel 2003 ha abbattuto il regime di Saddam Hussein.

E poi la recrudescenza delle battaglie in Libia, con le truppe del generale Khalifa Haftar che conquistano Sirte e si avvicinano al cuore di Tripoli, appoggiate dai russi. I media raccontano di vertici, missioni di ministri degli Esteri e dei leader degli Stati coinvolti nei due teatri di guerra, riportano dichiarazioni belliciste o pacifiche, le strategie e gli interessi economici in gioco. Ma in queste narrazioni sono completamente assenti il punto di vista dei popoli e soprattutto il numero delle vittime civili che i due conflitti stanno generando.

Dopo l’abbattimento del regime di Muammar Gheddafi, la situazione libica è scivolata in un conflitto civile e tribale, che ha visto opposte forze politiche militari e milizie improvvisate. La deflagrazione delle violenze è datata 2014: da allora ad oggi almeno 6 mila civili hanno perso la vita, ma è una stima al ribasso non essendo presenti sul campo osservatori neutrali, come contingenti Onu o giornalisti (salvo sporadici reportage). Dal 4 aprile scorso la dichiarazione di guerra di Haftar al governo di Fayez al-Serraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha alzato il termometro dello scontro, nel quale sarebbero morti almeno 4 mila civili, in un Paese di 6 milioni e 200 mila abitanti.

C’è poi la situazione dei migranti. Già grave per via della detenzione in centri dove vengono consumati omicidi e stupri, se possibile è peggiorata. Come ha denunciato Jean Paul Cavalieri, capomissione per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, le condizioni sono diventate «terribili. Un milione di persone ha bisogno di assistenza. Ci sono oltre 217.000 sfollati (libici, ndr) nel Paese, bambini, donne, uomini in condizioni di rischio estremo. E noi non riusciamo ad avere accesso a tutte le zone della Libia. Il sud del Paese o la zona di Bengasi sono pressocché irraggiungibili. Decine di migliaia di persone, in detenzione arbitraria, che lottano per la sopravvivenza quotidiana. Il ministero dell’Interno non riesce più a garantire cibo e acqua per tutti». Non è un caso quindi che in questi giorni siano sbarcate sulle nostre coste anche centinaia di cittadini libici (quando si dice andare alle cause delle migrazioni...).

Dell’Iraq si è tornati a parlare solo per il raid con un drone americano che ha ucciso il generale iraniano Soleimani. Ma questo Stato non ha pace ormai da 16 anni. Non è raro che le agenzie giornalistiche battessero notizie di attentati con autobombe e decine di morti. I media non davano voce a queste mattanze perpetrate dallo Stato islamico, segno di assuefazione e di rassegnazione a un destino di violenze e sanguinante dell’Iraq. Dal 2013 sarebbero oltre 300 mila le vittime del conflitto (anche in questo caso il condizionale è legato alla reperibilità di fonti certe: il numero è riferito ai decessi certificati negli ospedali). I 40 milioni di abitanti vivono in povertà nonostante la ricchezza petrolifera. Così sono sorti movimenti di piazza giovanili che contestano alla classe dirigente corruzione e carovita, chiedendo un Iraq democratico e libero da influenze esterne. Un movimento represso con la violenza della polizia e di milizie iraniane che ha fin qui provocato 600 morti e 22 mila feriti.

Libia e Iraq hanno un punto in comune: sono stati attaccati da potenze occidentali con la promessa di portare democrazia (gli Usa denunciavano anche la presenza di armi chimiche a Bagdad: mai trovate). L’abbattimento del regime di Saddam Hussein, che faceva da argine a quello iraniano, ha permesso a Teheran di sbarcare nello Stato confinante e di diventare una potenza regionale, che ora gli Usa combattono. Quelle guerre furono dichiarate senza avere piani alternativi di governo seri e solidi. Oggi paghiamo questa approssimazione. Pacificare e ricostruire i due Stati sarà costoso e richiederà tempo. Ammesso che quei piani nel frattempo siano stati redatti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA