I conti salati
del virus

Quando l’epidemia sembrava confinata in Cina, il calcolo dei danni per l’economia italiana era arrivato a quello 0,2 di cui ha parlato il governatore Visco. Ma, oggi che agli occhi del mondo siamo ormai diventati un caso clinico, un contagio da cui stare alla larga, le conseguenze rischiano di diventare incalcolabili, nei due sensi che ha questo termine: non esattamente misurabili e di altissimo valore. Prima era solo un elemento indiretto non da noi dipendente: caduta delle esportazioni in Cina, interruzione delle attività produttive su cui la nostra manifattura fa affidamento e dunque blocco della catena del valore, e soprattutto paralisi del turismo cinese, con 5 milioni di visitatori e 600 milioni di incassi in forse.

Ora, il male ce lo facciamo direttamente da soli, e il presidente di Federmeccanica Dal Poz ha il sospetto che i Paesi europei nostri concorrenti «facciano i furbi», con una diversa contabilità dell’epidemia. Dopo tanta fatica sull’attrattività italiana, lanciata da Expo 2015 e alimentata dalla speranza delle Olimpiadi invernali a Milano, dopo aver rifiutato per dabbenaggine populista quelle di Roma, siamo diventati un Paese del quale diffidare non per la solita inaffidabilità istituzionale ma per sicurezza sanitaria? Sbeffeggiabile dalla Tunisia, quella stessa che un ministro degli Interni aveva definito esportatrice di galeotti, chiudendo così l’unica porta esistente per il rimpatrio di immigrati.

Abbiamo sì attirato l’attenzione, ma mettendo bene in vetrina la fragilità di Lombardia e Veneto, le due regioni che fanno da sole il 30% del Pil nazionale, con due paesi – Casalpusterlengo e Codogno – che valgono vendite da 1,6 miliardi. Anche solo per le chiusure provvisorie, rischia di non fatturare per mesi tutto un grande settore strategico del terziario legato a fiere, mostre, convegnistica, viaggi organizzati, gite scolastiche, indotto del calcio e della moda (per inciso i due campi per i quali siamo più conosciuti nel mondo). Il carnevale non è frivolezza ma vale 250 milioni, solo 60 a Venezia, che stava riprendendosi dalla insensata drammatizzazione dell’acqua alta, portata in primo piano su tutte le Tv internazionali. La primavera italiana vale secondo Confcommercio 2,6 miliardi, ma fioccano disdette, anche fino all’80%. Verrà il momento dei bilanci e si tireranno solo allora le somme delle due partite oggi in corso: tutela della salute pubblica e difesa dell’economia nazionale, due valori non uguali, perché la salute viene prima, ma una classe dirigente si valuta anche per la capacità di gestire il loro equilibrio. Vedremo. Ora possiamo fare solo previsioni e auspici. Le prime sono pessime. Partiamo dal +0,6 sognato dal governo (+0,8 nel Nord), già oscurato dalle ricadute del -0,3 dell’ultimo trimestre 2019, e dal rallentamento dei motori chiave: manifattura ed export. Questa nuova botta potrebbe essere di dimensioni insostenibili, anche di un punto di Pil, Dio non voglia. Si consideri che da un anno all’altro, nella valutazione del prodotto, conta persino il numero delle festività. Ora abbiamo operai a casa (e nell’auto dopo 40 giorni senza rifornimenti si blocca tutta la filiera), impiegati e dirigenti in smart working, riunioni rinviate, viaggi esteri sospesi o italiani respinti alla frontiera (persino la Bulgaria…). E non si parla più di Ilva, Alitalia, 150 crisi aziendali aperte. Quelle restano, insieme alla stagnazione parlamentare. Lo spettro è la quarta recessione in 12 anni, perché questo primo trimestre 2020 ha tutta l’aria di finire come il precedente, e saremo al semestre tecnico di recessione. Anche la Germania sta male e fa zero, ma noi siamo ultimi nell’area euro e già mezzo anno è compromesso. Restano gli auspici. Ma non possiamo consolarci con l’azienda che fabbrica mascherine e ha assunto 30 persone per fornirle a pieno ritmo…

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