I genitori di «Cito» l’eroismo della normalità la forza dell’amore

Oggi che Ignazio Okamoto, detto «Cito» guarda il mondo dall’aldilà, non può non essere grato di aver avuto due genitori così. Ignazio è l’uomo morto dopo 31 anni di coma, nella sua casa di Collebeato, un paese della bassa Val Trompia. La sua vita era stata segnata da un tragico incidente sull’Autobrennero, quando aveva solo 22 anni. Era sull’auto con altri tre amici: uno morì, gli altri si salvarono. Ma a lui toccò la sorte di quel lungo «sonno» che avrebbe segnato il resto della sua vita. Che a differenza di quanto potremmo supporre non è stata affatto un vita vuota: dopo due anni infatti i genitori avevano scelto di portare a casa «Cito» nella convinzione che un di più di vicinanza e di affetto era la cura migliore per loro figlio.

Papà Hector, messicano di origine giapponese e mamma Marina, bresciana, non hanno mai inseguito quello che sapevano essere impossibile: il risveglio di loro figlio. Non hanno nutrito la loro vita di una speranza che per i medici era un’illusione. Tutto quello che hanno fatto lo hanno fatto solo perché amavano quel figlio e quella sua vita così esile.

Non hanno fatto gli eroi, anche se papà Hector per reggere alla routine quotidiana aveva dovuto lasciare il lavoro. Hanno semplicemente fatto quello che a loro sembrava «naturale», per usare la parole con cui hanno voluto spiegare la loro scelta ai giornalisti accorsi per raccogliere la loro storia. Nella loro semplicità hanno anche fatto una confessione stupenda: «Non ce l’aspettavamo (la morte di “Cito”, ndr). Stava bene». In quello «stava bene» cogliamo tutta la premura da cui il ragazzo diventato nel frattempo uomo era circondato. Può sembrare un paradosso pensare che una persona in quelle condizioni possa «stare bene»: eppure come non credere alle parole di quel papà e di quella mamma, così istintive, così reali?

Se «Cito» poteva «stare bene» è anche perché i suoi genitori non hanno fatto della sua vita una questione di principio da rinfacciare ai tanti che in cuor loro pensavano che fosse meglio lasciarlo andare quel figlio. Non ne hanno fatto una battaglia contro chi in quelle situazioni aveva fatto una scelta diversa. Papà Hector ha voluto subito chiarire di rispettare chi aveva fatto scelte diverse, disinnescando una polemica che magari a tanta informazione sarebbe piaciuta, magari contrapponendolo a papà Englaro.

Lo «star bene» di «Cito» era evidentemente qualcosa di impercettibile allo sguardo dei più ma era invece un’evidenza per i suoi genitori, come anche per il fratello minore Fabio. In che senso lo era? Certamente era una dimensione concreta di tranquillità e di attenzione premurosa a tutte le necessità. Ma possiamo immaginare che fosse anche altro. Era la dimensione percepibile di bene e di positività fiduciosa che si respirava in quella casa; una dimensione contagiosa, che aveva richiamato tanti in una gara di solidarietà molto «naturale». Erano i ragazzi che si avvicendavano al letto di «Cito» e che si sentivano suoi amici.

La vicenda di «Cito» e della sua famiglia ci lascia anche uno sguardo di positività che va oltre le mura di quella casa: infatti ci costringe a cambiare il nostro sguardo sulle centinaia di storie come la loro che in questo momento si stanno vivendo nel nostro Paese. Sono storie che non fanno notizia perché l’attaccamento semplice alla vita non fa purtroppo notizia. Invece la «notizia» è che in Italia sono oltre tremila le famiglie alle prese con persone care in stato vegetativo. Vivono tra problemi e fatiche che è facile immaginare, con una pazienza forte e misteriosa. A tutti loro ha fatto certamente coraggio sentire papà Hector affermare con serenità e convinzione che il suo «Cito» se ne era andato, ma in fondo «stava bene».

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