I soldi da soli
non bastano
Serve il talento

Sono 110 i miliardi spesi per far fronte all’emergenza pandemica negli ultimi dieci mesi. Una cifra enorme che però passa quasi inosservata. Lo spread non evoca più terrori. Il differenziale con i Bund tedeschi è a quota 113 punti, mentre solo due anni fa era a 326. Nel dicembre del 2011 erano 528 i punti che stavano portando l’Italia in bancarotta. La verità è che il nostro Paese vive perché la Banca centrale europea finanzia. E la Bce può finanziare perché l’Italia è nell’Eurozona. Da questi due presupposti nasce la sostenibilità del debito italiano.

Un carico difficilmente gestibile per le casse pubbliche se Francoforte non comprasse, attraverso la Banca d’Italia, titoli di Stato. Tutto questo è dato per scontato, ma non lo è. Il programma di Christine Lagarde denominato Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) dura sino a marzo 2022, poi ogni Stato membro dovrà stare sulle proprie gambe. Le casse italiane dovranno portare il peso di un fardello cresciuto al 160% del Pil. Questo spiega le fibrillazioni che accompagnano il varo del Recovery Fund, ovvero l’impiego dei 209 miliardi messi a disposizione dall’Unione europea.

Il governo ha progettato 17 macro aree strategiche. La maggior parte degli investimenti riguarda la cosiddetta rivoluzione verde e transizione ecologica (74,3 miliardi), seguita dalla digitalizzazione e dall’innovazione (48,7 miliardi), la ricerca (19,2 miliardi) e poi altri capitoli a seguire sino alla sanità, con 9 miliardi.

Nel 2023 quando la Bce porrà fine ai suoi sostegni finanziari dovrà apparire chiaro che gli investimenti attuati sono produttivi. Per un semplice motivo: se vi sono le basi per la crescita il debito diventa sostenibile nel tempo. Posto su un piano di razionalità economica, il piano non trova ostacoli. Ma la politica è anche mediazione dei vari gruppi di interessi nel Paese ed è fuor di dubbio che è la rendita e non la produttività che ha segnato la vita economica degli ultimi anni.

Nel periodo 1995-2019 secondo i dati Istat l’indice di produttività dei fattori è a zero. E questo spiega, secondo la Cgia di Mestre, perché in Italia negli ultimi 18 anni l’incremento del Pil è stato di 4 punti percentuali, in termini di valore reale, mentre in Francia è stato del 25,2 per cento, in Germania del 26,5 per cento e in Spagna del 34,7 per cento.

Se l’economia non tira, nessuno osa investire più dell’indispensabile, tutti si rinchiudono nel proprio guscio e cercano di trarre vantaggio da quanto accumulato nel tempo. Vale per le imprese che si concentrano sulla proprietà, diffidano della Borsa e, se messe alle strette, preferiscono vendere, oppure restare come piccoli subfornitori, se pur di qualità, dei grandi gruppi internazionali. E vale anche per i singoli privati che accumulano i loro risparmi sui conti correnti e non si muovono per timore di perdere 1.400 miliardi posteggiati in banca o in depositi vincolati senza prospettive di impiego.

Questo stato d’animo è aggravato dal fatto che in Italia per ogni giovane sino ai 15 anni vi sono due vecchi dai 65 in su. Tutto questo genera diffidenza verso il nuovo. Il nuovo in politica vuol dire riforme. E l’Italia ne ha bisogno come il pane. È pensabile per esempio investire nella scuola senza liberarla dalle scartoffie e dalle riunioni inutili per promuovere finalmente il merito, la ricerca, la vocazione pedagogica? È possibile tornare ad un coordinamento fra governo e Regioni che renda efficace la gestione dell’emergenza come ai tempi del mitico Zamberletti, il padre della Protezione Civile? E l’autonomia delle regioni anziché gridata non dovrebbe prima essere meritata? I soldi contano, ma se non si investe nel talento e nella competenza non si cresce.

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