I vent’anni di Facebook tre sfide urgenti

ITALIA. Facebook non è più un teenager. Il noto social ha spento 20 candeline lo scorso 4 febbraio. Nella storia mitologica della memoria collettiva è il padre di tutti i social, lo Zeus dell’Olimpo digitale, a cui si tributa il merito di aver traghettato internet dentro l’era 2.0, quella in cui il mondo-oltre-lo-schermo diventa incredibilmente normale o ordinario: il web non è più la fredda connessione tra pc e strumenti che servono per lavorare, per fare ricerche, o per giocare.

Diventa uno spazio confortevole, in cui si sta volentieri, perché si porta qualcosa e si incontrano amici. Come il bar, la piazza del paese e il sagrato dopo la Messa. Con Facebook si realizza questa grande rivoluzione: nel web ci si sente a casa, ci si sta bene. Comincia ad andare online un pezzo della vita reale, fino al punto in cui tutti, oggi, si trovano a vivere così, a cavalcioni fra la vita di tutti i giorni e quella online: il digitale non è più una terra di evasione, ma un posto vero, il giardino sul retro delle giornate di tutti, in cui ci sono cose molto reali. Alcune delle nostre amicizie, dei nostri pensieri, delle nostre foto più care e delle nostre passioni. Facebook, ora ventenne, è colui che ha reso possibile tutto questo, nel bene e nel male, dando origine a una progenie di social che a esso si ispirano necessariamente.

Cosa si può dire di questi due decenni di vita? Nasce nel 2004 come almanacco universitario online, per favorire le relazioni fra studenti. Rapidamente si diffonde in tutto il mondo, arrivando nel 2023 a raggiungere i 3 miliardi di utenti attivi (il 40% della popolazione mondiale), con relativo fatturato da capogiro. Il successo planetario e intergenerazionale deriva dalla capacità di intercettare e di rispondere ad alcuni bisogni/desideri che fanno da sempre parte della psiche umana. La combinazione con l’efficacia del digitale fa il resto, in modo estremamente raffinato. Facebook dunque è il capostipite dei social: mette a punto un meccanismo che fa scuola a tutti i suoi eredi. Fa leva su alcuni aspetti di bisogno e di piacere fondamentali: l’essere cercati, riconosciuti e approvati. Il ricevere commenti e reazioni che aiutino la rielaborazione dei propri significati e delle proprie esperienze. L’avere a disposizione amicizie leggere, senza l’ingombro del fatto che dopo aver parlato tre volte con qualcuno, dobbiamo quasi sentirci in obbligo di invitarlo a cena. Tutto questo ci è piaciuto molto.

Ma ancora stiamo facendo i conti a proposito di cosa voglia dire entrare in contatto con gli altri senza avere a disposizione i loro occhi e i loro volti in tempo reale, mentre non vediamo come reagiscono a ciò che diciamo. Stiamo tuttora imparando ad avere a che fare con una comunicazione che, tra lettere e faccine, non riesce a esaurire le sfumature che l’incontro in presenza ci ha reso familiari e preziose. Non finirà domani l’esercizio di gentilezza e di umanità che chiede a ciascuno di crescere nella responsabilità di ciò che dice. Come non si esaurisce nel digitale l’impegno e la passione che servono per costruisce reti e comunità.

Insomma, è un compleanno interessante e complicato, che invita tutti noi a raccogliere e rilanciare quest’eredità, per evitare che Facebook arrivi un giorno alla pensione dovendo rimproverarsi, per la verità magari senza nemmeno troppa vergogna, di essersi tirato dietro i problemi di un’adolescenza da cui non è mai uscito. Indietro non si torna e la strada del boicottaggio è una pezza inadeguata. Occorre prendere consapevolezza di alcune questioni che ormai non possono più essere rimandate, né affidate soltanto a organismi internazionali con lunghe sigle: Facebook e i suoi rampolli sono esperienza di tutti, sono un luogo in cui abitano diversi di noi, molti dei nostri figli e parecchi dei nostri nipoti. Un luogo vero e decisivo, anche se al di là dello schermo, come lo è l’America, anche se al di là dell’Oceano. Tre sfide su tutte sono particolarmente urgenti. Primo, la sostenibilità ecologica ed energetica di queste piattaforme. Secondo, la quota di narcisismo da cui siamo diventati dipendenti: cercare approvazione su ogni aspetto della nostra vita non ci ha reso più liberi, forse solo più insicuri e omologati; un bisogno senza fondo, che cannibalizza ore e ore del nostro tempo. Terzo, i dati di utilizzo che lasciamo ai social: sono il nostro modo di pagare queste piattaforme perché ci conoscano meglio e ci tengano attaccati di più, per venderci i prodotti e le idee di chi paga questo sistema per noi. Auguri. Più che a Facebook, al nostro compito.

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