Il «capitano» Salvini
tra proclami e cautela

Tutti aspettano che Matteo Salvini decida cosa fare del governo. Il vincitore delle elezioni europee, il leader che ha portato la Lega dal 3 per cento del disastro post-bossiano a uno stellare 34 doppiando gli «alleati» Cinque Stelle nel frattempo smagriti della metà dei voti raccolti solo un anno fa, non ha ancora deciso quale debba essere il momento buono per staccare la spina. Quello cioè in cui potrebbe capitalizzare il voto europeo trasformandolo in seggi parlamentari senza correre il rischio di essere additato come il responsabile di una crisi al buio.

Salvini, come è noto, è un buon tattico e quindi anche lui sa che in politica temporeggiare troppo in attesa del momento buono rischia di trasformarsi in un boomerang: a forza di aspettare, l’occasione si spreca. La novità di queste ore però è che i vari capi della Lega, per quanto gli riconoscano il merito assoluto del trionfo leghista, hanno ripreso a rumoreggiare: sono stanchi del Movimento Cinque Stelle, di Di Maio, di Toninelli, della Grillo, di Costa e della Trenta, e forse anche di Conte. Hanno alle spalle armate di elettori del Nord che premono perché il governo si dia una mossa a contrastare il declino economico, a mantenere le promesse fiscali e di autonomia regionale, ad avviare i cantieri delle opere pubbliche dopo l’approvazione dell’apposito decreto. E considerano ormai il M5S una palla al piede. Tra i più convinti della necessità di prendere rapidamente le distanze dal Movimento Cinque Stelle è proprio Giorgetti, il potente sottosegretario-sentinella di palazzo Chigi che, per quanto sia il braccio destro di Salvini, mantiene una propria autonomia di giudizio, e non ha mai nascosto la sua insofferenza verso Di Maio & C. Anche perché Giorgetti, ex bocconiano ben inserito nei circoli confindustriali, sente molto da vicino - forse più di Salvini - la pressione dei ceti produttivi impauriti dalla crescita quasi ferma e soprattutto delle minacce di Bruxelles.

In questo contesto, c’è da considerare anche una dinamica interna alla Lega che riguarda i veneti: da sempre i co-fondatori del movimento lamentano di non avere lo stesso potere dei loro cugini lombardi. E quindi quando protestano perché il progetto autonomia è sostanzialmente fermo, lo fanno se possibile con maggiore enfasi anti-grillina: tutto per insistere con Salvini perché si decida a tagliare il nodo.

Queste pressioni dei leghisti più influenti prima o poi avranno un effetto su Salvini. Il problema però è che il «Capitano» non ha ancora ben chiare le conseguenze di una rottura improvvisa. Soprattutto perché ora c’è la questione della procedura di infrazione da risolvere: per evitarla serve un governo in piedi e se quello che c’è dovesse cadere, è quasi certo che Mattarella lo sostituirebbe con un esecutivo tecnico «alla Monti» senza necessariamente andare subito allo scioglimento delle Camere. Uscire dalla stanza dei bottoni con quella montagna di voti da mantenere e aspettare che il tecnico di turno passi la mano una volta cessata l’emergenza, magari dopo un anno, è un rischio che Salvini deve valutare. Come pure non può consentire che un periodo di «sospensione» politica rafforzi le spinte sia nel M5S che nel Pd a tentare un’alleanza in chiave anti-sovranista: tutti insomma contro Salvini. Quando si innescano meccanismi di questo genere – Renzi lo ha pagato sulla sua pelle – non si sa come si va a finire. È dunque del tutto comprensibile che Salvini proceda coi piedi di piombo: bisogna distinguere i suoi proclami a voce alta dalla cautela da viet cong nella jungla con cui si muove.

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