Il confine necessario che ci ricorda la morte

ITALIA. C’è in tutte le culture un confine, invisibile ma reale, che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Può trattarsi di una delimitazione spaziale, come la cinta muraria che divide i luoghi della vita ordinaria dal camposanto, dalla necropoli, o dalle antiche catacombe.

Come pure può trattarsi di una barriera scritta nel tempo, che comprime, dentro ad alcuni folkloristici giorni dell’anno, il ricordo di chi non c’è più, come avviene per il Día de los muertos in Messico, o per la ricorrenza nordico-celtica di Halloween. Dalla notte dei tempi gli uomini hanno avuto bisogno di marcare un confine tra i vivi e i morti. È un tratto così distintivo del genere umano, che diversi antropologi identificano la nascita simbolica della nostra specie proprio quando si trovano in presenza del gesto della sepoltura, del culto dei defunti, anche minimale. Il rito con cui ci si separa e ci si congeda pone una barriera tra due mondi.

Perché è tanto decisiva l’istituzione di questo confine? Quale significato comporta per essere considerata il Rubicone dell’umanità, per cui al di qua c’è la vita degli animali e appena oltre invece comincia l’avventura umana? Perché dalla morte occorre proteggersi, ma con i morti bisogna conviverci. La morte è il nemico per definizione della vita umana, l’esperienza che dice che un giorno potrai non esserci più e la realtà non si fermerà, andrà avanti lo stesso. È la constatazione sconvolgente che quando muoio, il mondo non si arresta. Mi sopravvive e riesce a fare a meno di me. Ci sono, vivo ed esisto, ma non sono necessario. Questo è il veleno della morte, questa goccia di nulla che rende superfluo lo sforzo dell’esistere, tanto la lotta per il meglio quanto l’abbandonarsi alla scelta distruttiva del peggio: alla fine, non resta nulla. Tutto è una scheggia di vanità.

Se diventa necessario proteggersi dalla tirannia nullificante della morte, è altrettanto importante non consegnarle chi ci ha preceduto e ci ha affidato al dono della vita. I morti sono coloro che sono stati vivi, e lo scambio con loro continua. Il loro culto è qualcosa che dà forma alla cultura di un popolo: non per niente «culto» e «cultura» sono la stessa parola, che viene dal latino «còlere», «coltivare». Si tratta cioè di custodire, di coltivare una relazione che non finisce con l’ultimo respiro: perché si sente che un legame continua, che qualcosa non si spezza. Il fatto di aver vissuto lascia uno strascico che umanamente non siamo disposti a perdere. È una sorta di presenza. Il cimitero sarà pure il posto dove stanno i morti, ma sono i vivi quelli che ci vanno: è il luogo in cui accade un incontro. Non si tratta di chiamare in causa il paranormale, o il soprannaturale, o una visione di fede: prima ancora, è un dato di fatto che una vita lasci un segno indelebile anche dopo il suo passaggio, alla stessa maniera di come un sasso gettato in uno stagno produce increspature nell’acqua anche dopo essere affondato. In questo c’è un qualcosa di sacro.

È lo stesso motivo che ci porta a riconoscere dentro a dei dettagli delle nostre giornate un richiamo che associamo a un nostro caro defunto, una traccia in cui indoviniamo la sua presenza: un profumo, un sogno, una luce particolare, un luogo che, all’improvviso, ce lo fanno sentire vicino. Perché non è morta la nostra relazione con lui, lo scambio tra ciò che noi siamo e ciò che lui è stato per noi. Questo è ciò che il culto dei morti voleva custodire: l’idea che il confine tra i defunti e i viventi potesse continuare a essere una risorsa, un luogo di reciprocità e di senso. È il sodalizio che stringe in unità tutti coloro che hanno provato ad aver vissuto.

Il disincanto del mondo contemporaneo ha ispessito il confine tra i vivi e i morti. Non ha tempo e voglia per l’invisibile, a meno che non sia codificabile dentro risvolti economici, scientifici, o psicologici. Da un lato, quindi, ha scacciato dal mondo razionale e oggettivo il rapporto con i defunti, per relegarli a fantasmi dentro le dinamiche della mente, della gestione del lutto e della rimozione del trauma. Dall’altro, è un mondo che ha così paura di morire, che ha rimosso la questione: come se si potesse non morire, come se non fosse uno degli elementi costitutivi del senso della vita. Senza il confine che ricorda il dramma del non senso a cui si può esporre la vita, i morti riposano in pace, ma il mondo dei vivi si popola dei figli di Narciso. Sono coloro che non esistono se non per se stessi: non sono troppo distanti dai morti che volevano rifuggire, perché si scoprono, malgrado tutti i loro sforzi, meno capaci di vivere.

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