Il declino del Pd
Poche idee e confuse

Non c’è da meravigliarsi che il Pd si sia mangiato in tre anni più della metà del suo consenso. Suscita meraviglia piuttosto il fatto che, nonostante tutto, nonostante se stesso, resti ancora al 17 per cento. Dicevamo nonostante se stesso, e a proposito. Sono passati, infatti, ormai sei mesi dal tonfo del 4 marzo e i suoi vertici non si sono ancora degnati di condurre una seria autocritica dello scacco subito. Si sono limitati ad attribuirlo a un difetto di comunicazione.

Dopo di che anch’essi, però, ammettono di aver commesso qualche sbaglio. Ma, si sa, solo chi non fa è sicuro di non sbagliare. Stessero così le cose, si dovrebbe concludere paradossalmente che è stato l’elettorato ad essere troppo ingeneroso con i propri dirigenti e che quindi ci sarebbe poco da cambiare al vertice del partito. Peccato che non mostrino di pensarla così quanti dovrebbero tornare a votarli. A ben guardare, sono gli stessi leader del Pd i primi a credere che ci sia molto da cambiare, visto che fanno a gara nell’annunciare progetti di grandi rivolgimenti. Il presidente dem Matteo Orfini vorrebbe addirittura chiudere bottega e aprire una nuova ditta.

L’ex ministro Carlo Calenda non è meno tranchant. Non vede più un futuro per il partito cui peraltro si è appena iscritto. Propone la sua cancellazione per dar vita ad un erigendo Fronte repubblicano capace di aggregare tutte le forze antipopuliste. E che dire poi di chi (come l’unico candidato, al momento, alla segreteria Zingaretti) cede alla nostalgia dei bei tempi antichi e auspica la formazione di non meglio precisato «fronte largo» della sinistra, non accorgendosi che non è chiaro cosa sia oggi la sinistra e dove si possano trovare i possibili compagni di strada da aggregare per agguantare una maggioranza di governo?

Un franamento di consensi così rovinoso non può essere attribuito a un solo passo falso, per quanto grave, commesso dagli ultimi governi a direzione democrat. Non basta chiamare in causa il Jobs act, l’abolizione dell’art. 18 o la Buona scuola per giustificare un crollo di queste proporzioni. Dev’essere intervenuto qualcosa di più profondo nel sentire degli italiani. Lo ha ben intuito un suo esponente: «C’è una parte consistente del Paese – ha ammesso Stefano Esposito - che vuole sentirsi dire le cose che dicono Salvini e Di Maio e non interessa loro se le cose sono giuste o no. Sono cambiate le regole, non è più calcio, è rugby. Se non cambi finisci nelle vecchie glorie».

Il riformismo globale è in ritirata dappertutto. Il deficit spending non è più praticabile. La classe operaia se n’è andata in paradiso. Al suo posto la globalizzazione ha spalancato l’inferno degli ultimi e dei penultimi, dei cosiddetti forgotten men: i «dimenticati» (anche dalla sinistra) che si sono rifugiati tra le braccia dei populisti. Il segretario Martina, invece, non ha trovato di meglio che chiamare a raccolta per fine mese «la piazza che non ha paura». Il guaio è che dovrebbe parlare alla maggioranza che invece ha paura. Per parafrasare il famoso discorso d’insediamento di John Fitzgerald Kennedy, il Pd farebbe bene, non a chiedersi in cosa sbagliano Lega e M5s, ma cosa di giusto è in grado lui di proporre agli italiani.

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