Il diesel che inquina
bandiera dei perdenti

La piazza domina la scena europea. I perdenti della globalizzazione presentano il conto. Sono quei ceti che, esclusi dai vantaggi delle frontiere aperte, hanno visto peggiorare il loro potere d’acquisto. I gilet gialli in Francia protestano contro l’aumento della benzina ma il loro antagonista è il nuovo ceto medio urbano delle grandi città. Lavoratori specializzati, addetti alle comunicazioni, start-upper votati alla digitalizzazione, nuove figure professionali , è questo il gruppo sociale che ha portato Emmanuel Macron, il «parvenu» della politica francese, alla presidenza. Il futuro come speranza è stata l’arma di scambio elettorale.

In Italia come in Francia si scopre che non è vero, non ce n’è per tutti. O meglio ce n’è per chi ha età, tempo, voglia, opportunità e predisposizione per rimettersi in gioco, per riqualificarsi e fare della propria vita lavorativa un continuo corso di aggiornamento professionale. Poi ci sono i lavori umili, quelli restano, ma la loro retribuzione è bassa e comunque non in grado di sopportare un qualsivoglia aumento del carburante. Così l’ ecologia diventa un lusso e il diesel inquinante la bandiera degli emarginati. Diversamente dall’Italia in Francia manca la piccola e media industria e quindi dopo i grandi campioni nazionali, le grandi banche, i grandi gruppi di distribuzione nella grande provincia gallica vi è il deserto. L’ Italia ha una spaccatura territoriale tra Nord industriale e Sud assistenzialista. Non era mai successo che i ceti produttivi protestassero per chiedere ciò che sino a ieri era ovvio: ossia poter lavorare.

E questo mentre la protesta sociale viziata da anni di «dirittismo» senza doveri insegue l’utopia di uno sviluppo senza lavoro. Ipotesi possibile nel tempo con l’avvento dei robot ma nel frattempo chi si occupa dei disoccupati? Diamo a tutti il reddito di cittadinanza in un Paese in recessione e con entrate fiscali in calo? I governanti europei stanno imparando che il loro vero compito è di occuparsi dei perdenti. Questo è il frutto avvelenato della globalizzazione. La ricerca del Censis ci rivela un’Italia incattivita. Le socialdemocrazie europee non hanno capito che loro compito era occuparsi di questi strati sociali e hanno lasciato il campo ai populisti. L’Italia segna la strada. I gilet gialli in caso di elezioni in Francia andrebbero al 12 %. Il partito di Macron è indicato a quota 21%. Per adesso tiene ma per quanto? L’unico Paese che si distingue in questa congerie segnata dagli affanni italiani, dal caos francese, dalla polveriera Brexit, dalla crisi di governo in Belgio sul patto di migrazione, è il primo della classe, la Germania della stabilità. E il motivo è chiaro: qui la globalizzazione ha vinto e non ha lacerato il tessuto sociale come negli altri Stati europei. L’export crea solo in Germania 6,5 milioni di posti di lavoro e a cascata poi sugli altri Paesi che le fanno da corona, dalla Polonia, passando per la Slovacchia, la Francia e l’Italia.

Un successo che non è stato indolore. La questione migranti ha portato di fatto alle dimissioni di Angela Merkel dalla presidenza del partito. Alle elezioni avanzano i Verdi ormai al 20% e la destra conservatrice di AfD con oltre il 12%. Ma la spina dorsale della Germania, il ceto produttivo è saldo e diffuso. La disoccupazione è al 5%, tendenza in calo. Il bilancio pubblico è in avanzo e lo Stato sociale può permettersi di sostenere chi è stato svantaggiato e ha perso la scommessa del cambiamento. Le uniche difficoltà per il Paese vengono da fuori. Senza l’Europa la Germania non ha peso adeguato a livello internazionale. Dalla moneta unica europea ha avuto tanto, è suo interesse nazionale cominciare a distribuire i dividendi agli azionisti.

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