Il futuro di Draghi? L’Europa ci guarda

Se stiamo alle date, Mario Draghi ha cominciato a «governare» l’Italia già dal marzo 2020, un anno prima di mettere fisicamente piede a Palazzo Chigi. Ricordate, all’epoca Giuseppe Conte stava faticosamente affrontando la pandemia e la paralisi economica provocata dal lockdown scattato proprio in quei giorni di marzo. Si provava a tamponare le falle ma fu Draghi, dall’alto delle colonne del Financial Times e del suo prestigio di salvatore dell’euro, a dettare la linea economica dell’Europa assalita dal virus e dell’Italia super indebitata: spendere, debito «buono», non esitare nel far intervenire lo Stato ovunque necessario, mettere al bando le arcigne regole del patto di Stabilità per reagire al Covid «come durante la guerra».

Fu una sorta di liberazione, l’annuncio di una linea economia della Ue, e da quel momento il governo non esita più a distribuire risorse, i «ristori», tutti a debito (anche se poi gli interessati le considerarono insufficienti). Quando poi Conte cominciò ad incartarsi tra le polemiche dei partiti, i ricatti dei leader di maggioranza, le gaffe del suo protetto Arcuri e l’imbambolamento dell’elefantiaco Cts messo in piedi a Palazzo Chigi, l’ipotesi di un avvento di Draghi come uomo della Provvidenza si fece ogni giorno più concreta. Conte, insieme al ministro dell’Economia Gualtieri, aveva ottenuto i fondi per far fronte all’emergenza (i famosi 209 miliardi) ma l’Europa non si fidava di come li avrebbero amministrati un governo troppo ballerino e un leader visibilmente debole. Fu Matteo Renzi a provocare la crisi di governo, probabilmente già sapendo quale ne sarebbe stato l’esito (tant’è che si parlò di una visita segretissima all’ex presidente della Bce nel suo casale umbro di Città della Pieve prima ancora che Italia viva ritirasse la fiducia al governo giallo-rosso). Che la soluzione fosse pronta lo dicono le date: il 26 gennaio Conte si dimette, il 3 febbraio Mattarella convoca Draghi che scioglie la riserva in nove giorni e il 13 giura con i suoi ministri, imbarca al governo tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia, mantiene nove ministri del vecchio gabinetto ma ai posti chiave mette uomini suoi, supertecnici come Daniele Franco all’Economia e Vittorio Colao all’Innovazione. Gli obiettivi sono due: portare a compimento una campagna vaccinale cominciata male e tra le polemiche e gestire i fondi europei da Piano Marshall rovesciando il Pnrr di Conte come un calzino. La prima operazione è stata compiuta con la fulminea sostituzione del commissario Arcuri con un generale degli Alpini esperto di logistica; la seconda mettendo tutto nelle mani dei tecnici di via XX Settembre e di Palazzo Chigi. Quanto alla comunicazione del governo, poche ma sentite parole in rade conferenze stampa, tutto il contrario delle verbose dirette televisive fiume di Conte su ispirazione del suo consigliere Rocco Casalino, ex Grande Fratello.

Quanto ai partiti Draghi, ha gestito sin dall’inizio il suo potere quasi in solitudine: il Pd di Letta, in quanto partito dell’establishment, ha provato e prova tuttora a presentarsi come il pretoriano del presidente del Consiglio, ma è un’operazione di scarso profitto; quanto a Salvini (avvisato sin dal discorso della fiducia che il governo sarebbe stato anti-sovranista) il tira-e-molla con palazzo Chigi che a cadenza fissa mette in scena è rivolto soprattutto ai follower del leader leghista che infatti si sfoga ora attaccando Roberto Speranza, ministro della Salute, ora chiedendo le dimissioni della coriacea prefetta Lamorgese che guida il Viminale.

I Cinque Stelle, lacerati tra Di Maio e Conte e terrorizzati dai sondaggi elettorali, sono così indeboliti che si affidano al premier chiedendo ogni tanto un regalo di immagine, ad esempio il rifinanziamento (ridimensionato) del reddito di cittadinanza.

Draghi amministra con scioltezza il potere sia all’interno che all’estero: prestigio internazionale indiscusso, rapporti consolidati con chiunque conti nel mondo, soprattutto fortissimi con gli americani e Joe Biden, per non parlare di Ursula Von der Leyen; intesa con Macron (con cui ha firmato il «Trattato del Quirinale») e con il socialdemocratico Scholz succeduto ad Angela Merkel; figuroni al G7 di Carbis Bay in Cornovaglia, alla presidenza del G20 e alla guida di Cop-26 in Scozia insieme a Boris Johnson. Insomma, si vola altissimo là dove i deboli partiti italiani neanche si sognano di arrivare (forse con l’eccezione di Enrico Letta, sia pure in versione junior).

Tutto questo potere però ora sembra in discussione: la partita per il Quirinale è molto incerta e quando Draghi è parso candidarsi, i partiti si sono presi la rivincita dopo dieci mesi di magoni e hanno ostentato freddezza. Il dilemma dei prossimi giorni sarà esattamente questo: su quale poltrona siederà Draghi? Resterà a Palazzo Chigi o salirà al Colle? O andrà a Bruxelles al posto della Von der Leyen? Al solo refolo di dubbi i mercati hanno cominciato a innervosirsi facendo lievitare di nuovo lo spread, tenuto saldamente sotto quota cento per tutto il 2021. Una cosa è certa: Draghi non tornerà a curare l’orto di Città della Pieve. Tutto invece da dimostrare che l’Italia possa fare a meno di lui.

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