Il governo al completo
Le nomine e la baruffa

Una gran baruffa, come al solito. Lasciata la questione dei sottosegretari alla decisione dei partiti (pur riservandosi l’ultima parola) Mario Draghi in questi giorni e poi ieri sera ha avuto plasticamente davanti a sé la prova di quanto sia e sarà difficile governare con una maggioranza tanto eterogenea, divisa, fragile e incerta sul proprio destino. Certo, alla fine la lista delle poltroncine del sottogoverno è pur uscita dal Consiglio dei ministri, e proprio quando l’ennesima litigata tra partiti stava facendo rinviare tutto a oggi. Ma Draghi deve aver pensato che esordire con un rinvio, proprio come toccava fare a Giuseppe Conte, l’uomo del «salvo intese», non sarebbe stato un bello spettacolo, e così il cerchio finalmente si è chiuso.

I sottosegretari e viceministri sono 39, un po’ meno di quanto si sapeva: tra loro 11 sono grillini (gliene spettavano 10 con l’assottigliamento delle loro truppe parlamentari ma hanno spuntato l’undicesimo strapuntino), 9 leghisti, 6 berlusconiani, 6 democratici, 2 renziani, 1 di LeU e 3 di varie formazioni centriste. Le grane maggiori le hanno avute i pentastellati perché, ridotti i posti, hanno dovuto trovare un accordo tra le mille correnti che li dividono e li contrappongono nel caos che ormai domina il cosiddetto partito di maggioranza relativa. Da rilevare che anche la Castelli è riuscita a rimanere al suo posto, viceministro del Tesoro, nonostante che il ministro Daniele Franco e il braccio destro di Draghi a Palazzo Chigi Garofoli certo non le vogliano bene da quando fu proprio lei, insieme a Rocco Casalino, a farli cacciare dalla Ragioneria generale dello Stato con l’accusa di «remare contro» i programmi del Conte giallo-verde. Chapeau. Resta anche Pierpaolo Sileri alla Sanità nonostante le lotte con la struttura del ministero e la strisciante polemica con il ministro Speranza.

Poi anche i democratici hanno avuto il loro bel da fare: una volta che i ministri sono stati scelti tutti tra gli uomini, il segretario Nicola Zingaretti aveva promesso che avrebbe designato solo donne nel sottogoverno: c’è quasi riuscito, facendo passare l’ex ministro Enzo Amendola come «tecnico» e trovandogli un posto agli Affari europei. Prezzo pagato: la mancata conferma di sottosegretari che avevano ben lavorato come il bergamasco Misiani all’Economia. Quanto a Salvini ha avuto ben 9 posti e soprattutto l’ha spuntata per riportare uno dei suoi al ministero dell’Interno per controllare la ministra Lamorgese e la sua politica migratoria. Andrà Nicola Molteni che fece i decreti immigrazione nel Conte 1 e ne vedremo delle belle con il Pd, LeU e i grillini di sinistra. Per Forza Italia, dopo grandi scontri, ha deciso Berlusconi che avrebbe voluto all’Editoria il fedelissimo Giorgio Mulè (ex direttore delle news Mediaset) ma gli hanno sbarrato il passo gli alleati: «Troppo amico del giaguaro». E così Mulè è andato alla Difesa e al suo posto è andato un berlusconiano meno identificabile. Infine poche resistenze alla nomina del capo della Polizia Franco Gabrielli ai servizi segreti (delega cui Draghi, a differenza di Conte, ha rinunciato scegliendo al suo posto un uomo di assoluto prestigio istituzionale).

In un modo o in un altro il quadro dunque si è composto, i posti sono stati assegnati e oggi Draghi potrà partecipare al vertice europeo sui vaccini e ai funerali delle povere vittime in Congo. Ma l’inquietudine deve aver lambito anche il glaciale ex presidente della Bce che, avendo piegato i tedeschi della Bundebank, forse pensava di avere mano facile a Roma coi partiti. Gli hanno dimostrato che, quando vogliono, sono capaci di rovesciare i tavoli pur di non perdere una posizione di potere.

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