Il Ministero di catechista, l’annuncio
è un pilastro per una fede senza rughe

Ieri alle 11,30 è stata presentata la lettera apostolica in forma di «Motu proprio» di Papa Francesco dal titolo «Antiquum ministerium» con la quale viene istituito il ministero di catechista. La lettera si colloca dentro un disegno che sta prendendo forma sempre meno indefinita, fatto di scelte che sembrano guardare nella medesima direzione: aiutare il corpo della Chiesa di oggi a strutturarsi in modo nuovo per abitare gli spazi e la cultura contemporanea. «Ministero», nella Chiesa, indica un servizio e un incarico più stabile nel tempo. Semplificando quest’idea, si potrebbe un po’ impropriamente dire che il corpo unico di Gesù – che ha predicato e fatto miracoli 2000 anni fa – oggi viene come «affiancato» dal corpo ecclesiale, certamente più goffo e voluminoso, che proprio perché non sostituisce il corpo del Risorto, mentre gli assomiglia, ne mostra anche la continua differenza: per fare un po’ di quello che ha fatto Gesù, la Chiesa ha bisogno, nei secoli, di attrezzarsi di attenzioni, di funzioni e di servizi stabili, che rispondono all’esigenza di prolungare la dinamica dell’incarnazione e di ricordare che l’esperienza della fede è comunque di più.

Attraverso questa lettera Papa Francesco dice che fare catechesi non è un semplice passatempo, ma è qualcosa di essenziale su cui investire. Non sta dicendo che tutti i catechisti devono diventare dei professionisti dell’annuncio a tempo pieno per tutta la loro esistenza: è maldestro leggerla come uno sbarramento in entrata, per cui si inizia a chiedere catechisti col pedigree o si istituisce la casta della carriera da catechista. Piuttosto, il Papa sta affermando il bisogno che la comunità cristiana non faccia della catechesi la cenerentola delle sue preoccupazioni, quella a cui si pensa una volta liquidate tutte le altre. È uno sbarramento in uscita: chi fa il catechista non può arrivare alla fine della sua esperienza e sentire che questo non ha reso più bella e autentica la sua fede.

Tenere acceso il fuoco dell’evangelizzazione e della testimonianza credente è fondamentale: dire-agli-altri è il miglior modo perché la comunità continui a dire a se stessa la verità di cui vive. Perché molti possano continuare a dare una mano a fare catechesi, è necessario che alcuni lo facciano come vocazione: è questo aspetto dell’«alcuni» che fa bene alla comunità, perché tiene viva per tutti la dinamo che ricarica le energie e lo slancio della fede. Così la comunità diventa sempre più plurale, un poliedro di attenzioni che ri-forma, dà una nuova forma alla Chiesa, evitando che diventi puntiforme, cioè affare soltanto del prete.

Sicuramente è una lettera che parla più al mondo intero che alle nostre realtà parrocchiali: dove i preti scarseggiano, si auspica che siano figure di catechisti così a custodire con costanza la fede. Ma questo diventa una provocazione anche per il nostro Occidente secolarizzato e in piena crisi della trasmissione: è un invito a ripensare l’annuncio come pilastro; è la possibilità di crescere nella corresponsabilità e nella passione per la comunità cristiana; è slancio verso l’incontro con la cultura di oggi, dentro un dialogo che tiene la fede viva e senza rughe; è richiamo a un pensiero serio sull’evangelizzazione, che non può pensare di aver esaurito il suo compito con l’oretta settimanale in aula; è voce che dai tempi antichi, come dice il titolo della lettera, sprona i catechisti ad assumere questo incarico come una seconda pelle del loro essere cristiani, che favorisca anche l’investimento per una formazione permanente.

La sfida che si apre è quella di dare forma ai passi che rendono concretamente possibile l’avviarsi di questo cammino di continua conversione.

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