Il paese del Sol Levante che voleva rilanciarsi ha vinto la sua Olimpiade

Il Giappone ha fatto la sua parte. E la scelta di ospitare, malgrado tutto, le Olimpiadi della pandemia è stata alla fine vincente. Peccato, però, che le gare si siano tenute a porte chiuse, privando il pubblico di emozioni uniche dal vivo. Prima che il Covid rivoluzionasse la vita del pianeta, il Paese del Sol Levante voleva, attraverso i Giochi, rilanciare la sua immagine internazionale dopo la tragedia di Fukushima nel 2011. Oggi, sotto altre forme, vi è riuscito ugualmente dimostrando la solita capacità organizzativa, l’ineguagliabile compostezza e la ospitalità, anche a costo di pagare un prezzo alto.

Ad inizio di «Tokyo 2020», quotidianamente, si registravano circa un migliaio di casi di positività, adesso siamo attorno ai 15 mila. Una larga fetta della popolazione era contraria a tenere i Giochi, ma la politica nazionale si è imposta. Con le elezioni alle porte, in autunno, non sono da escludere sorprese, anche clamorose. Avanzato tecnologicamente, all’avanguardia in tutto quello che è futuro, ma ancorato alle sue millenarie tradizioni, il Giappone, da decenni, è un «pezzo di Occidente» in Asia, un esempio di democrazia, di stato di diritto, di economia di mercato.

Membro del G7 - il club dei Paesi più ricchi - dalla sua fondazione, il Paese del Sol Levante ha messo alle spalle gli orrori della Seconda guerra mondiale (salvo qualche visita di troppo dei propri premier a templi dal passato divisivo), diventando ambasciatore di pace. I rapporti con i vicini sono, però, tutt’ altro che ideali. Con la Russia non è stato nemmeno ancora firmato un trattato di pace a fine delle ostilità del 1945, ma vige una semplice intesa dal 1956; con la Cina, l’acerrima avversaria di sempre, i malintesi sono continui e di frequente si sfiora lo scontro armato per le isole Senkaku; con la Corea del Sud le incomprensioni su questioni commerciali sono all’ordine del giorno; di Corea del Nord è meglio non parlare.

Di tutt’ altro carattere sono i rapporti, ottimi, con gli europei e con gli australiani. Con questi ultimi, durante il cortocircuito Usa al tempo della presidenza Trump, Tokyo ha tentato di fare fronte comune anti-cinese, sperando invano di salvare il TPP, il Trattato di partnership Transpacifica. I due Paesi hanno cercato - in assenza di Washington, prigioniera, allora, dell’«America first» - di continuare lo stesso ad essere dei punti di riferimento per quanti in Asia-Pacifico si trovano distanti dalle posizioni di Pechino. La firma del Partenariato economico globale regionale (Rcep), nel novembre 2020, è stata, però, la presa di coscienza che - diversamente da un accordo di libero scambio con anche l’ex Impero celeste ben dentro - non si sarebbe potuto fare.

Buone, ma particolari, sono le relazioni con gli Stati Uniti. A parte dissapori per l’utilizzo della base Usa ad Okinawa, il Giappone non comprende perché l’Amministrazione Biden ci abbia messo sei mesi per lanciare un’offensiva diplomatica, che facesse dimenticare in Asia i pasticci di Trump. Serve soprattutto trovare presto il modo di controbilanciare la cosiddetta «Via della Seta», la rete di mega-infrastrutture che Pechino sta costruendo per raggiungere l’Europa via terra. Il Giappone cercherà, nel breve periodo, di migliorare anche l’intesa con l’India, altro «pilastro» democratico continentale, avvicinando le esigenze strategiche della regione indo-pacifica. Il massacro a colpi di mazze ferrate sul Kashmir con i cinesi nel 2020 rende New Delhi sensibile a certi discorsi. Tokyo ha, in breve, vinto la sua scommessa olimpica; ora spera di passare all’incasso.

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