Il processo all’Oms
Il rischio dei danni

Da Donald Trump al sindaco del più piccolo tra i Comuni, non c’è leader o responsabile di qualcosa che non sia stato messo sotto pressione dall’emergenza coronavirus. Uno dei più sfortunati, in questo senso, è l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, dal 2017 direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il dottor Gebreyesus potrebbe essere un caso da manuale nella polemica «competenti contro incompetenti» (detta anche: uno vale uno ma forse no) che all’inizio della pandemia tanto appassionava gli italiani. A lui i titoli non mancano: è un biologo con doppia specializzazione conseguita nel Regno Unito e una solida fama internazionale ottenuto con diverse ricerche sulla malaria. Prima di arrivare al vertice dell’Oms è stato anche, per quattro anni, ministro degli Esteri del suo Paese. E prima ancora, per otto anni, ministro della Salute.

Uno scienziato, un politico e un diplomatico, insomma. Certo, c’erano state polemiche per come aveva gestito tre epidemie di colera in Etiopia. Ma in generale, che si poteva chiedere di meglio per una grande istituzione internazionale? E invece no. Gebreyesus è finito sotto processo. È accusato direttamente dagli Usa di Trump, che lo considerano un burattino della Cina e minacciano di sospendere per sempre i loro finanziamenti. Che tanto per cambiare, sono i più generosi al mondo: 893 milioni di dollari per il biennio 2018-2019, contro, per dire, i 192 dell’Onu e i miseri 76 della Cina stessa. Ed è guardato con sospetto da molti altri Paesi, soprattutto da quelli che devono curare le ferite profonde inflitte dal coronavirus.

Non si può dire, in effetti, che dai vertici dell’Oms siano sempre arrivate, soprattutto a cavallo tra gennaio e febbraio, informazioni puntuali e direttive convincenti. Prima fu messa in dubbio la diffusione del virus tra gli esseri umani. Poi furono elogiate «la dedizione e la trasparenza» mostrate dalle autorità di Pechino, e criticata la decisione americana di chiudere gli aeroporti ai voli provenienti dalla Cina. Per non parlare dell’esitazione nel proclamare la pandemia. Così l’Organizzazione è finita nell’occhio del ciclone e all’ultima assemblea plenaria, pochi giorni fa, ha dovuto incassare una risoluzione, firmata dai 194 Paesi che ne fanno parte, in cui si chiede «un processo di valutazione imparziale, indipendente e completo» sull’attività dell’Organizzazione stessa in questi mesi di crisi. Se non è una messa sotto tutela, poco ci manca.

In realtà gli Usa avrebbero preferito puntare i riflettori sui peccati e le omissioni della Cina, ma il consenso internazionale non era abbastanza solido per farlo. Appuntamento solo rimandato, però. Anche il coronavirus, infatti, è diventato uno strumento di lotta politica per il predominio globale e l’emergenza sanitaria un altro dei campi per combatterla. La pandemia ha rimescolato le carte con una profondità che potremo misurare solo tra qualche tempo. Trump, per esempio, sembrava avviato alla rielezione, con l’economia in piena corsa, e ora arranca. Xi Jin-ping pareva un leader inattaccabile e il mondo discuteva come difendersi dalle sue strategie di espansione economica e politica, adesso è guardato come il grande untore planetario.

Andremo avanti a lungo, in questo modo. Con grandi danni per tutti. C’è un vaccino anti-Covid da realizzare, ed è chiaro che si perderà tempo se i grandi Paesi non collaborano tra loro, e anzi fanno a gara su chi arriva primo. Allo stesso modo, c’è un intero mondo da ricostruire, con l’evidente necessità di rivedere le relazioni tra le persone e i gruppi, i rapporti di produzione e di scambio, l’interazione tra le nazioni, il ruolo delle organizzazioni internazionali. Ma se il buongiorno si vede dalla battaglia sull’Oms…

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