Il pubblico servizio
che merita rispetto

L’uccisione, in un agguato dai contorni non troppo nitidi, dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci ha scosso il nostro Paese. Due vite spezzate, probabilmente anche a causa dell’inadeguata valutazione dei pericoli che essi (insieme all’autista del loro veicolo) correvano. Sull’accaduto saranno gli investigatori e la magistratura a fornire risposte. La vicenda che ha visto coinvolti i nostri connazionali rappresenta un caso esemplare. Nel duplice significato della parola. Di poter essere portato ad esempio (positivo, ovviamente) dei compiti di un pubblico impiegato; di essere solamente uno dei tanti esempi del comportamento di buona parte dei dipendenti dello Stato. Intanto l’Italia piange due servitori dello Stato che hanno pagato con la vita il loro attaccamento ai doveri che si erano assunti entrando a far parte dell’amministrazione dello Stato. Doveri che sono incisi a chiare lettere nell’articolo 54 della Costituzione, il quale prescrive l’obbligo per essi di adempiere «con disciplina ed onore» alle funzioni loro affidate. Ed è proprio con onore che un altissimo funzionario della carriera diplomatica e un «semplice» agente dei Carabinieri hanno adempiuto al loro dovere con sprezzo per i rischi connessi.

Colpisce (senza stupire) che un commilitone del carabiniere trucidato nel corso della missione abbia subito chiesto di sostituire immediatamente il collega morto in servizio. Ulteriore esempio di cosa significhi sentirsi servitori dello Stato. Il tragico avvenimento – pur non essendo il primo del genere – ha fatto prepotentemente riemergere tra i cittadini un sentimento di solidarietà per persone normalmente ignote alla pubblica opinione e che sono state proiettate sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa del Tg e dei Gr soltanto a causa della loro morte. Su tale questione occorrerebbe una seria e costruttiva riflessione che porti a riconsiderare l’immagine dell’amministrazione pubblica e la reputazione di coloro che operano al suo interno.

L’amministrazione pubblica italiana, inutile dirlo, ha rendimenti complessivamente insoddisfacenti, per un insieme di ragioni che affondano le radici nella storia del Paese. Ossificazione organizzativa e funzionale, scarsa attitudine a utilizzare al meglio il personale, inattitudine di molti dirigenti ad essere tali e a farsi carico delle loro responsabilità favoriscono fenomeni come i «furbetti del cartellino». D’altro canto le ingerenze della politica nell’amministrazione (tanto nei processi decisionali quanto nell’occupare posti chiave con persone inadatte ma politicamente «addomesticabili») hanno gravato sul rendimento degli uffici pubblici. A dispetto di tutto ciò, non si deve mai dimenticare che sono tanti – molto più di quanto si creda normalmente – i dipendenti pubblici competenti, volenterosi, onesti, i quali sono i primi a desiderare che le pubbliche amministrazioni operino al servizio dei cittadini e per il bene comune. Milioni di Attanasio e Iacovacci, che sperano di essere considerati per quelli che sono: persone rispettabili e da rispettare. Al riguardo possono essere utili due riflessioni. Sarebbe auspicabile che l’ostilità preconcetta di larga parte dell’opinione pubblica nei confronti dei dipendenti pubblici venisse progressivamente meno, facendo posto ad atteggiamenti più ponderati, che evitino di generalizzare il giudizio critico, riservandolo solamente a coloro che realmente lo meritano. Analogamente, è sperabile che il ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, scelga – nello svolgere l’arduo ruolo che gli è stato nuovamente affidato – di evitare l’uso degli slogan fuorvianti, e oltretutto offensivi, utilizzati nella sua precedente esperienza di governo. Perché – come ammoniva un secolo fa Piero Gobetti – la riforma della pubblica amministrazione non si farà mai senza l’apporto dei pubblici dipendenti.

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