Il tatticismo oscura
le grandi questioni

Si sono scomodati passaggi epocali della nostra storia per evidenziare che saremmo chiamati a compiere una «scelta di civiltà ». Come nel 1948, anche oggi dovremmo decidere da che parte stare. Settant’anni fa l’alternativa era tra libertà e comunismo. Adesso sarebbe tra democrazia liberale e una deriva illiberale, prodromica ad un esito autoritario. Da quando all’orizzonte s’è stagliato l’astro di Salvini, il clima politico, già surriscaldato, ha toccato temperature inusitate. Da quando poi, con l’apertura della crisi di governo, ha cominciato ad aleggiare il fantasma di una sua presa diretta del potere, è scattato l’allarme.

C’erano, insomma, tutte le premesse perché il confronto politico si allineasse compattamente lungo la linea divisoria che separa, e oppone, i due campi: dei fautori e degli oppositori dell’aspirante premier. Con grande sorpresa domina, invece, la scena un tatticismo esasperato che mette in ombra e quasi tacita le grandi questioni che viceversa interessano gli italiani. Non si parla di Europa sì/Europa no, di euro sì/euro no, di conferma delle nostre alleanze internazionali tradizionali vs. sovranismo aperto alla Russia di Putin, di grandi interventi infrastrutturali a favore della crescita o meno.

Al loro posto infiamma gli animi lo scontro sulla calendarizzazione della crisi governativa o sulla riduzione dei parlamentari. Una partita a scacchi in cui Conte e Di Maio da assediati stanno diventando assedianti e nella quale non si capisce nemmeno se ci sia in atto una crisi o solo un rimpasto di governo. Temi che non possono evidentemente accalorare gli italiani. Caso mai li disorientano.

Il cittadino comune sarà anche portato a sottovalutare l’importanza delle procedure parlamentari. E sbaglia. Posticipare, ad esempio, la convocazione delle Camere ha significato contrastare, e forse far fallire, l’immediato ricorso alle urne perseguito da Salvini.

E ancora: se martedì Conte sarà bocciato dal Senato, rischierà assai più di uscire di scena che non se si recherà dal capo dello Stato appena chiuso il suo intervento. Ciò non toglie che suoni paradossale la preminenza accordata al tatticismo. La scelta non è senza conseguenze politiche.

Tramontate le ideologie, si stanno perdendo per strada anche le identità, ossia quell’insieme di convinzioni, di valori, di orientamenti programmatici che sono la carta d’identità e il titolo di fiducia delle forze politiche.

Una volta liberi tutti da ogni vincolo e coerenza con il proprio passato, è inevitabile che tutti siano pronti a trattare con tutti, a smentire oggi quello che hanno spergiurato di voler fare ieri. Grillo chiama «barbari» i suoi (fino a ieri) alleati. Di Maio e Salvini erano raffigurati come degli innamorati e oggi si insultano. Renzi aveva diffidato Zingaretti di flirtare con i Cinque Stelle per poi pressarlo a favore di un governo con loro, non si capisce peraltro se di scopo o di legislatura. E che dire di Forza Italia, tentatissima dall’abbraccio col nuovo leader vincente del centro-destra e al contempo attenta a quanto si muove sulla sponda opposta?

Il tatticismo è il padre di ogni trasformismo e il trasformismo dell’antipolitica. D’accordo che viviamo in tempi di disincanto. Vero pure che le democrazie vivono di compromessi. Cambia la musica, però, se l’abbandono di pregiudiziali risultate dannose per l’interesse generale del Paese porta a sottoscrivere accordi che paiano accordicchi, inciuci, pateracchi utili soprattutto a conservare poltrone. Viene lesa allora l’identità politica dei partiti contraenti l’accordo.

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