Il tempo del silenzio
dimensione di pienezza

Il silenzio del sabato resta un capitale dello spirito di cui la vita cristiana non ha mai veramente imparato a fare tesoro. Essa resta come dominata dalla sospetta impazienza di arrivare senza troppi indugi alla chiarezza ridente della proclamazione gloriosa. Non si tratta solo delle frenesie operative di ogni clima parrocchiale, dove il sabato sì certo, si passa a baciare la croce, ma mentre intorno ferve già il trambusto per i riti della sera. Si tratta proprio di un sentire spirituale piuttosto a disagio con una sospensione predicativa troppo prolungata e sempre ansioso di guadagnare la terraferma della fede dichiarata, ancora meglio se enfatizzata nella processione appariscente delle grandi certezze, come se quella pasquale non fosse una condizione per sua natura inseparabile dalla limitazione dell’assenza: «Non è qui».

Il nostro cristianesimo ama arrivare al dunque, non sopporta granché gli indugi nel regno degli interrogativi. La discesa di Gesù agli inferi, che non significa semplicemente il ripescaggio delle anime antiche ma il passaggio della sua stessa umanità negli abissi indecifrabili del male, resta nei discorsi cristiani una sorta di dogma mitico, che per veder sondato in tutta la sua tremenda profondità occorre rivolgersi al potere immersivo della vera grande letteratura, quella che davvero ha il coraggio di fare i conti coi demoni.

Mi sembra sintomatico che anche nei tempi del disincanto e della «morte di Dio», più che una tensione interrogante, pazientemente interpretativa, silenziosamente riflessiva, abbia prevalso in noi (salvando il lavoro nascosto e spesso ignorato dei teologi veri e la memoria testimoniale dei santi) un’accresciuta pulsione dottrinaria, un bisogno di affermare soddisfatto alzando la voce e mettendo in grassetto, immaginando che la «pretesa» cristiana possa apparire più vera quando riesca a risuonare più perentoria. Seguendo questa scia, molti di noi non hanno smesso di percepire come «amici» quei perturbatori sociali travestiti da politici che sembrano brandire la spada in nostro soccorso, mentre seminano semplicemente consenso per loro stessi (di solito, moschettieri da carnevale come questi il Signore li rimprovera aspramente e intima loro di rimettere nel fodero le loro ridicole armiciattole).

Queste prime settimane del grande contagio, che danno l’idea di dover diventare mesi, hanno invece costretto la vita credente a rimanere immersa in un prolungato sabato santo che significa tuttora un maldigerito digiuno liturgico. Il silenzio del sabato, date le circostanze, si presenta questa volta con una risonanza simbolica più ampia e concreta del solito, connotata dalla privazione di «segni» che certamente «mancano», perché indisponibili e desiderati (forse desiderati proprio perché indisponibili), benché a mio avviso malamente pretesi e surrogati, con strepiti poco degni della grazia che essi rappresentano. Storditi da un tale senso di privazione molti faticano ad avere occhi per riconoscere la grazia tremenda nella quale siamo stati immersi, condotti a toccare con mano la sostanza incandescente della vita e della morte, per un esercizio del cristianesimo chiamato all’esame dei veri abissi. Un silenzio benedetto in cui la rinuncia alle nostre «cose di chiesa» (che speriamo dopo questa esperienza di ritrovare più illuminate) ci sta consentendo un viaggio in fondo al mare che nessuna parola può aver fretta di definire. Nelle profondità di questo mondo sommerso, in cui discendiamo nostro malgrado e con sentimenti alterni, stiamo tutti ritrovando consistenze di cui avevamo forse perso le tracce.

Basterebbe avere uno sguardo meno fissato su certe convenzioni, anche religiose, per vedere la «discesa agli inferi» essere diventata un esercizio in cui in molti senza pensarci tanto hanno accettato di immergersi, in modo incondizionato, mostrandoci cosa vuol dire che il gesto cristiano della cura può uscire dalle chiese e riempire il mondo. Quanta gente in queste settimane indimenticabili, credenti oppure no, hanno «lavato i piedi» a parenti stretti e a perfetti sconosciuti, rinnovando quel gesto cui Giovanni nel suo vangelo attribuisce un senso «eucaristico» altrettanto intenso che quello del pane? Abbiamo mai vissuto una quaresima così concreta e letterale, privati di una normalità di cui impariamo a saggiare l’essenziale e il superfluo, dove non abbiamo rinunciato ai dolci o alle sigarette ma a una superstizione dell’invulnerabilità che dominava le nostre persuasioni come un radicato patrimonio genetico?

Quando ci convinceremo che il tempo del silenzio non è l’indizio acustico di uno spazio vuoto, ma una dimensione di pienezza in cui possiamo essere visitati, anche le poche parole che riusciremo a racimolare nel tremulo viaggio della nostra vita saranno impresse nel fuoco della sostanza e non appese al chiodo della futilità. Faremmo bene a familiarizzare col tono silente e sacrificato di questi giorni anomali. Domani faremo Pasqua. Ma resterà sabato santo ancora per molto.

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