Il trumpismo vincibile
si sente in Italia

Il trumpismo sopravviverà alla sconfitta di Trump? La domanda si può porre, anche se la pandemia cattura in una rete unica tutti i pensieri ed esclude per necessità qualsiasi argomento di riflessione estraneo. Il presidente americano uscente è la prima vittima eccellente del Covid, almeno per non averla voluta gestire quando già ne conosceva il pericolo: a forza di negare la realtà è stato negato dagli elettori. Un’ulteriore conferma che il dramma sanitario sconvolge vecchie e nuove certezze, comprese le improvvisazioni dei pifferai magici, profeti del «crepuscolo della democrazia». Diversi osservatori, infatti, ritengono che interventi appropriati avrebbero potuto avere miglior sorte sulle fortune di Trump. Comunque ha perso bene: ha esteso la propria base sociale rispetto alle elezioni del 2016 (70 milioni di voti popolari) e non c’è stata l’«onda blu» dei democratici, la vittoria a valanga.

Una prima lezione riguarda gli italiani che frequentano la prossimità del negazionismo, quei cattivi maestri che ora impartiscono lezioni al governo dopo aver trascorso l’estate a predicare il «no» alla mascherina. Trumpismo vuol dire la declinazione americana di un fenomeno popolare attivato dall’estremismo politico e veicolato dal web. Il populismo ha ottenuto il lancio e la gratificazione internazionale nel 2016 con la doppietta Brexit-Trump alla Casa Bianca, mentre la teoria della «democrazia illiberale» dell’ungherese Orbàn ha portato in dote un pezzo volonteroso degli ex satelliti dell’Urss e il successo della Lega alle Europee del 2018 ha introdotto nel club il laboratorio Italia, sempre intrigante ma ugualmente problematico. Tempesta perfetta non certo gloriosa, comunque addebitabile in parte all’arroganza delle élites cosmopolite e tecnocratiche. La domanda, dunque, è se Trump si prepara a diventare acqua passata, una scialuppa corsara nel mare in tempesta, una transizione ad opera di alieni da superare, oppure se resta parte di un paesaggio antropologico, del sentire comune sociologico, ancor prima di un’espressione politica: il populismo, in sé, nella rappresentanza dei vinti che popolano un mondo che vorrebbero virtuoso e inclini a scendere dal treno della modernità, s’è appropriato, con un ribaltone sociologico, di quei ceti popolari che la sinistra sopraccigliosa s’è lasciata scappare. Con il tempo si capirà se si tratta di una malattia curabile, oppure il volto oscuro e inatteso di quel «soft power», cioè l’egemonia americana del consenso culturale capace di conquistare favori nel mondo.

I quattro anni di Trump alla Casa Bianca non hanno avuto il tempo di definire un ciclo storico, tuttavia hanno dato un timbro alla propria stagione: per essere esaltato e contestato. I grandi movimenti culturali e di opinione pubblica degli Stati Uniti (cultura pop, Kennedy e Reagan) si sono poi replicati in modo strutturale sull’Europa, sia pure con un riflesso a geometria variabile. Le elezioni in America ci hanno detto che il trumpismo non è un destino invincibile: da italiani, da provincia dell’impero, dovremmo apprendere qualcosa. Nell’era della polarizzazione delle società, della mela spaccata in due, si può cercare una via mediana. Biden ha vinto con la moderazione delle parole e dell’approccio, con una professionalità riconosciuta a livello internazionale e con un patrimonio personale fatto di 45 anni di Congresso. Lo stesso celebrato nuovismo non ha superato uno scrutinio implacabile. L’Italia, nonostante tutto, è allineata come testimonia la cordiale telefonata fra Biden e Conte: del resto la solida tradizione atlantista ed europeista della Farnesina garantisce una tenuta che va al di là di leader e coalizioni. Sarebbe già un successo se Biden riuscisse ad abbassare il tasso di odio che caratterizza oggi gli Stati Uniti e a raffreddare quello mondiale. Non è tutto oro quel che luccica e l’America è sempre l’America, come ha riconosciuto Kissinger, un esperto in materia: qualche volta Washington è entrata da elefante nella vetrina di porcellane. La nuova America inciderà sulle relazioni internazionali, presumibilmente più dialoganti, sui modelli emulativi del nuovismo politico e, nel suo impatto contrastante, è riconducibile alla parabola del nostro populismo, sostanzialmente quello della Lega. Il riflesso della sconfitta di Trump in Italia si sente, soprattutto nei silenzi su questo argomento e, per contrasto, nel sostegno che continua ad esserci all’azione politica responsabile del governo, per quanto assediata. Chissà, il ripensamento autocritico, ancorché inespresso, potrebbe costituire un’opportunità estrema per Salvini: riassumere un ruolo di opposizione istituzionale nel versante di un conservatorismo moderato, piuttosto che essere l’interprete provinciale di una subcultura. Quel trumpismo colpito al cuore, negli elementi genetici di una società alternativa a quella negoziale: la negazione del dialogo, del confronto civile governato dalle regole istituzionali.

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