In Europa, Italia
sempre più sola

Il 13 novembre scadrà il termine posto dalla Commissione europea per avere dal governo italiano un sostanziale cambio di rotta nella linea di politica economica. Si dice che ancora questa risposta non sia stata scritta, ma si sa sotto quale affermazione Giovanni Tria metterà la firma: quella per cui la manovra non si tocca nei suoi numeri fondamentali – e cioè rapporto deficit-Pil al 2,4 per cento – con l’unica assicurazione che non sarà fatto crescere oltre. È chiaro, tutti lo sanno, che questa affermazione non solo non basterà ai commissari di Bruxelles ma con ogni probabilità farà scattare da subito una pesante procedura di infrazione.

All’ultima riunione dell’Eurogruppo non un solo Paese si è schierato a favore dell’Italia: non solo i nostri storici critici – il fronte del Nord, dall’Olanda alla Finlandia, che oggi sembrano voler ricostituire una moderna Lega Anseatica – ma neanche i partner mediterranei; e non solo gli avversari politici di Salvini e Di Maio, cioè i liberali francesi e i democristiani e socialdemocratici tedeschi, ma anche i cosiddetti «alleati sovranisti» come gli austriaci e gli ungheresi. Insomma, siamo soli. Al punto che la Commissione potrebbe addirittura essere forzata dai governi a calcare la mano su Roma qualora volesse, per ragioni di prudenza e di tenuta complessiva del sistema, rallentare la corsa verso la «punizione» che ci aspetta. Insomma se anche Moscovici volesse attenuare il colpo, ci sarebbero tedeschi, francesi e tutti gli altri a dire: chi sbaglia, paga.

Tantopiù questo accadrebbe se a Palazzo Chigi e a via XX Settembre prevalesse l’idea di rimandare a Bruxelles la manovra tal quale, che sarebbe considerato un affronto che non sarebbe perdonato. Molti sperano invece che la lettera di Conte e di Tria possa essere apparentemente ferma ma morbida e flessibile nella sostanza: questo significherebbe mettere in una sorta di limbo temporale le riforme annunciate sul reddito di cittadinanza e le pensioni, che rimarrebbero in bella vista da qui alla campagna elettorale europea ma il cui effetto pratico – tanto temuto dai mercati come dalla Commissione – si vedrebbe soltanto più in avanti nel tempo. Chissà. Sta di fatto che lo spread continua a erodere i margini di imprese, banche e famiglie, come ieri ha ricordato il vicedirettore generale della Banca d’Italia che in una audizione in Parlamento ha chiesto che si ponga subito in campo uno strumento che possa indurre i mercati a diminuire la tensione.

Ed è apparso assai stridente il contrasto tra quanto aveva affermato poco prima di fronte ai parlamentari il ministro Tria, assai meno pessimista sullo spread e tanto più ottimista sulla capacità di una manovra così concepita di incidere sulla crescita. Mentre tutti gli osservatori già constatano un forte rallentamento del Pil, il governo è per il momento il solo a credere che le previsioni siano sbagliate e che potranno essere smentite dai fatti, e cioè dalle misure previste nella manovra. Certo è che su tutta questa vicenda è sempre più pesante il clima elettorale che c’è in Europa: sono alla caccia dei voti sia quelli che ci criticano sia i nostri politici, tutti accomunati da un’unica certezza, e cioè che le prossime elezioni europee saranno un passaggio decisivo per la futura Europa. Salvini e Di Maio sono convinti che dopo maggio ci sarà a Bruxelles una politica tutta diversa che abbandonerà i canoni dell’austerità e restituirà mano libera ai governi. Altri rispondono che qualunque cosa accada nelle urne non potrà certo indebolire il fronte che oggi condanna e penalizza la politica di mano larga sul deficit in un Paese come l’Italia enormemente indebitato. C’è in effetti da pensare che questo davvero non cambierà, anche in un’Europa «diversa».

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