In quel «per sempre» dei nove preti novelli c’è il senso del futuro

CHIESA DI BERGAMO. Nella serata di sabato 27 maggio sono diventati preti 9 ragazzi della nostra diocesi di Bergamo. Il festeggiamento per questa ricorrenza è ancora in grado, senza eguali a livello di ingaggio e di coinvolgimento, di mobilitare intere comunità, dai bambini ai nonni, passando per le famiglie e i giovani.

Sarebbe ingiusto derubricare questa gioia a retaggio di un piccolo mondo antico, che già palesa i primi segni di cedimento strutturale. Come sarebbe pericoloso classificare l’entusiasmo condiviso a espressione emotiva della collettività, come se l’ordinazione di nuovi preti fosse l’ultimo rito civile rimasto a tenere in piedi le speranze riposte nell’idealità dei giovani e nel bisogno di vederli eredi degni - forse un po’ eroici - del mondo che viene avanti e che spaventa un po’.

Quali radici ha dunque questa euforia? Forse, in primo luogo, ciò che viene celebrato è una scelta che ha il sapore del «per sempre». Celebrare i traguardi raggiunti è parte integrante e irrinunciabile del traguardo stesso. Vale tanto per i matrimoni quanto per coloro che diventano preti. L’idea che qualcosa possa durare un po’ di più di domani, degli alti e bassi della vita, dell’altalena di emozioni che strattona la volontà, è un’idea tardo romantica a cui facciamo fatica a rinunciare come specie umana. Per quanto ci si scontri con la ruvida concretezza del quotidiano, il ritmo lunedì-venerdì appare una cadenza troppo stretta per il bisogno di significato di una vita intera: c’è bisogno di ragioni supplementari che siano affidabili, in grado di ospitare il tutto di ciò che sono. L’intero di un’esistenza, con il suo meglio e il suo peggio.

È questa speranza che è contenuta nel fascino del «per sempre»: la speranza che ci sia un senso che non tramonti, che non ingiallisca con il tempo, che riesca ogni volta a innescare il bisogno di esistere per il bene. Si applaude dunque a giovani che hanno passato il Rubicone dell’età adulta, per lo meno dichiarano di volerci provare: hanno preso una scelta di futuro, vincendo l’inerzia del presente, male del nostro secolo. È diventato incredibilmente difficile scegliere oggi: certo che il tempo scorre ugualmente, ma decidere a quale figura di adulto si vuole dare forma con la propria vita appare una sfida non scontata. Chiede rinuncia e sacrificio. Più ancora, chiede qualcosa che valga, in virtù di cui si può rinunciare ad altro. Festeggiare loro vuol dire poter continuare a festeggiare la storia di una civiltà, di una cultura, di una comunità che è in grado di produrre ragioni di futuro, che non è sterile dal punto di vista del significato del tempo.

E poi, si festeggia cristianamente una vita donata per gratitudine. È l’atteggiamento invisibile che tiene in piedi il mondo quello della riconoscenza e della gratuità del dono. Il Vescovo, durante il rito dell’ordinazione, dice ai giovani che intendono diventare preti: «Renditi conto di ciò che fai, imita ciò che celebrerai, conferma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Quell’«Imita ciò che celebrerai» disincaglia la Messa dall’essere una pièce per gli affezionati: il prete è certamente colui che celebra per un’ora al giorno, ma che soprattutto prende l’impegno di trasformare la sua vita a immagine di quello che ha celebrato per le restanti 23 ore. Un uomo che crede che valga la pena attraversare il tempo concesso all’esistenza umana vivendo come Gesù Cristo è vissuto: «Conforma la tua vita alla croce di Cristo Signore». La Chiesa festeggia la vitalità e l’attualità del Vangelo, che ancora, concretamente, attraversa vite molto differenti e non perde la propria capacità di regalare significato. Non in astratto, ma dentro vite normalissime: il legame che unisce i credenti è quello che ha i tratti del popolo, in cui c’è posto per tutti, non solo per chi ci tiene, come nei fan club, o per quelli bravi, come nei circoli, ma tutti. Nella storia di questi nove ragazzi brilla la storia di altrettante famiglie, come tante. E la storia di comunità cristiane, oratori, scuole, serate con gli amici, estati… Come quelle di molti. Niente di straordinario, e niente di banale al contempo. È festa perché il quotidiano è ancora il domicilio dello straordinario.

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