La bellezza non basta e Riad sfila l’Expo a Roma

L’ANALISI. Non sono bastati un ottimo progetto, con padiglioni riscaldati con energia rinnovabile, la solita prosopopea del «core de Roma» e della Città Eterna, persino l’appello «last minute» del campione del tennis Sinner, reduce dal trionfo in Coppa Davis, a farci aggiudicare Expo 2030.

Non è stata sufficiente nemmeno la «sfida della sostenibilità» di una città «equa e solidale» come prometteva Virginia Raggi, presidente della commissione capitolina che aveva lo scopo di portare nell’Urbe la kermesse mondiale. La vincitrice è l’Arabia Saudita, con un punteggio che va oltre tutte le previsioni: 119 voti (Busan, in Corea del Sud, ne ha 29, Roma solo un pugno di schede favorevoli: 17). Ci hanno votato poco più di quattro gatti. Un’occasione persa per la Capitale e per tutto il Paese. E forse ha ragione Carlo Calenda quando dice che si è trattato di una candidatura nata male e sostenuta peggio.

La verità è che non siamo stati credibili, nonostante la Grande Bellezza imperitura di Roma. Non è difficile immaginare i fasti di Riad, che alla kermesse ci teneva moltissimo per una questione d’immagine (gli arabi ci hanno sempre tenuto molto ad Expo e ricordiamo che il padiglione arabo, nell’edizione di Milano del 2015, era uno dei più belli e avveniristici).

Del resto le risorse e il potere economico buttati sul tavolo dagli sceicchi erano incomparabili. La bellezza non basta. Ci vogliono i soldi. In fondo gli arabi si sono presi l’Expo così come si sono presi Cristiano Ronaldo, il Paris Saint German, il commissario tecnico della Nazionale italiana, alcuni tra i più grandi fondi di investimento mondiale e i principali imperi immobiliari europei. Evocare la retorica del Colosseo e dell’impero che aveva conquistato anche la Penisola Arabica non è più sufficiente. La politica del petrodollaro ha vinto su progetti che puntavano su temi come la sostenibilità, la transizione ecologica, il concetto di comunità. Più che la «transizione» hanno pesato le «transazioni».

Inutile ricordare che i diritti civili e umani da quelle parti spesso sono calpestati, che i cantieri rischiano di fare la stessa fine di quelli dei Mondiali del Qatar, che ha speso 220 miliardi di dollari per costruire bellissimi stadi e villaggi per gli atleti nel deserto utilizzando centinaia di migliaia di persone, attirandosi accuse di corruzione, di violazione dei diritti dei lavoratori e di mancate misure di sicurezza. Il pugno di voti che abbiamo rimediato dimostra anche che l’Europa è tutt’altro che compatta, perché molti Paesi membri dell’Unione europea non ci hanno votato, dirottando le loro scelte su Riad, attirati dalle volute di profumo di petrodollari. Non è una bella notizia per la comunità e la coesione europea, per lo spirito di fratellanza che dovrebbe legare il Vecchio Continente anche in queste occasioni.

Il risultato italiano oltretutto esalta e ci fa rimpiangere quello che portò l’Expo a Milano nel 2015. Quella di Roma, in fondo, è stata una grande umiliazione, inutile negarlo. L’Arabia Saudita compie così un altro importantissimo passo a livello geopolitico ed economico, mentre sul fronte calcistico prosegue la sua scalata all’élite del mondo del pallone. L’obiettivo di Riad rimane quello di costruire un campionato di alto livello, che faccia concorrenza ai top tornei europei, e di arrivare a organizzare i Mondiali di calcio entro il 2024.

Le parole (durissime) dell’ambasciatore Giampiero Massolo suonano come un monito: «Se questo è ciò che sceglie, a stragrande maggioranza, la comunità internazionale, significa che la scelta va al metodo transazionale, non transnazionale. Vale il principio dell’interesse immediato, della deriva mercantile. È pericoloso: oggi l’Expo, prima i mondiali di calcio, poi chissà le Olimpiadi. Non vorrei che si arrivasse alla compravendita dei seggi in consiglio di sicurezza, perché se questa è la deriva io credo che l’Italia non ci debba stare».

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