La denatalità
Il guaio rimosso

La lotta per la vita restituisce un’attenzione tardiva al problema demografico, il cuore del capitale umano e dello sviluppo di un Paese: in quantità e in qualità. La questione delle questioni. A 160 anni dall’Unità, l’Italia matura sta raccontando una storia diversa da come l’avevamo conosciuta: tutta in negativo. Complice il Covid, certo, che però non spiega tutto. I dati Istat non sono sorprendenti, ma il bollettino di una sconfitta annunciata. Siamo sempre meno, sotto la soglia psicologica dei 60 milioni di abitanti, e sempre più vecchi. I più anziani al mondo dopo il Giappone, da oltre 30 anni i campioni delle culle vuote. Il ciclo crisi-ripresa s’è interrotto. Avanti così, fra 15 anni, quasi un italiano su 3 avrà oltre 65 anni.

Nel 2020, l’annus horribilis, abbiamo perso un numero di cittadini pari alla popolazione di Firenze. Nell’anno del Covid, soltanto 404 mila nati e oltre 746 mila decessi: mai così tante vittime dal 1945. Si conferma la pressione dell’inverno demografico, con dati mai visti dal 1861. Uno degli studiosi più accreditati, Alessandro Rosina, scrive che siamo in presenza di un grande tema rimosso dalla politica, perché gli allarmi demografici di questi anni sono durati lo spazio di un’emozione. I più inascoltati, pur con alcune lodevoli eccezioni. Fra trascuratezza e ignoranza, la questione ai più dev’essere parsa come un fattore ineluttabile, un portato automatico di tempi ingenerosi. Il declino demografico precede di parecchio il virus, che ha agito da acceleratore-moltiplicatore e diventando infine il contenitore di più deficit, il punto di caduta finale.

Un male conosciutissimo, altro che oscuro, diffusosi come un virus non adeguatamente contrastato. Già prima del 2020 il quadro sociale ed economico era tra i meno positivi dell’eurozona. La pandemia ha reso ancora più pesanti gli squilibri da record collezionati dall’Italia e potremmo non essere al girone conclusivo. Dal 2014 il totale dei residenti in Italia scende di anno in anno, mentre il maggior invecchiamento della popolazione ci ha resi più vulnerabili al virus. I cambiamenti demografici, si sa, intrecciano la cultura e il costume, le grandi domande dell’esistenza, un’idea coinvolgente di futuro. E impattano sulla società in termini economici: conti pubblici, pensioni e welfare, lavoro e reddito, tasso di crescita. Non ultimo il contributo che viene dai flussi migratori, pure loro crollati l’anno scorso.

L’aumento dell’aspettativa di vita, quindi del numero degli anziani, combinato con la decrescita della natalità, cioè di coloro che in età adulta possono sostenere gli adulti, a lungo andare rischia di essere micidiale con il macigno del debito pubblico italiano. Lo stigma nostro è esattamente questo: siamo il Paese con i peggiori squilibri demografici d’Europa e quello che ha visto crescere una riduzione di peso e status dei giovani nella società e nel mondo del lavoro. Non per niente siamo la fabbrica europea dei Neet (i giovani che non studiano e non lavorano), il laboratorio che ha creato una profonda distanza tra giovani e Sistema Paese.

Solo in tempi recenti sembra essersi formata una coscienza critica per inserire in un progetto di sviluppo le nuove generazioni, i perdenti della mancata crescita. Bisogna sbrigarsi, perché il terreno sta franando: deboli percorsi formativi per i giovani, problematica conciliazione tra lavoro e vita sul lato femminile, alta incidenza della povertà nelle famiglie con figli. La pandemia ha rallentato ovunque la vita riproduttiva e da noi il colpo più duro lo hanno subito le donne. Il lavoro precario, per le lavoratrici e i giovani, incide negativamente sulle nascite. Non solo: la riduzione del tasso d’occupazione colpisce le classi d’età (25-34 anni) che già presentavano il più ampio divario rispetto alla media europea: quella fascia anagrafica che risulta centrale nella costruzione dei progetti di vita. I ragazzi italiani sono quelli che più si sentono costretti a rivedere al ribasso le scelte programmate: formare famiglia e fare un figlio. La via obbligata dovrebbe essere: fiscalità agevolata, conciliazione tra lavoro e cura domestica (come a Trento e Bolzano), incentivi per gli asili nido. Gli aiuti europei (lo dice il nome stesso: Next Generation Eu) potrebbero risultare provvidenziali, comunque un’occasione da non sprecare, e ben venga l’assegno unico e universale per ogni figlio annunciato da Draghi. L’esperienza altrui può aiutare, pur ricordando che gli choc demografici si assorbono solo sui tempi lunghi e che qualsiasi politica per aumentare le nascite è difficile sia efficace in una fase di declino. Lo dimostra il Giappone, con seri problemi simili ai nostri, che pure ha messo in campo assegni per i figli, congedo parentale e offerta di scuole materne. Non è tutto oro il celebrato welfare scandinavo, comunque il caso svedese dimostra che le iniziative di sostegno (asili pubblici e sussidi ai genitori) danno buoni risultati, ma costano ai contribuenti (in un Paese dove però le tasse le pagano tutti). In Francia le politiche demografiche sono state attuate dagli anni ’50. In Germania la fecondità è in ripresa. Anche per l’Italia invertire la tendenza al declino diventa un passaggio imposto dai fatti: per immaginare uno sviluppo diverso e per evitare gli effetti perversi di antichi ritardi e attuali tragedie.

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